In una giornata normalissima, in una società nella quale quasi tutti hanno uno smartphone, quasi ogni gesto di ciascuno è registrato: una passeggiata, una curiosità, una chiacchiera, un colpo di sonno alla guida, un pagamento… Con tutti quei dati, un’intelligenza artificiale può valutare quanto ogni persona sta alle regole o se ha comportamenti antisociali. In Cina, la gerarchia politica usa un sistema del genere per controllare tutta la popolazione. In Europa, con l’AI Act, il regolamento sull’intelligenza artificiale in via di approvazione, questo controllo sociale sarà vietato, e in generale saranno vietati gli utilizzi dell’intelligenza artificiale che mettono a rischio la dignità delle persone e i loro diritti fondamentali.
Questa tecnologia preoccupa per diversi motivi. C’è chi la teme perché potrebbe sostituire mansioni cognitivamente abbastanza qualificate e finora affidate a umani. Avvocati, giornalisti, ingegneri e altre professioni, secondo il recente Employment Outlook dell’Ocse, possono essere esposti al confronto con quello che sanno fare gli algoritmi. Ma la preoccupazione di una eventuale sostituzione di umani con macchine potrebbe essere esagerata. L’indagine dell’Ocse dimostra che per adesso l’introduzione dell’intelligenza artificiale non si è tradotta in una perdita di posti di lavoro: piuttosto ha reso più interessanti e soddisfacenti le mansioni svolte dai lavoratori più sofisticati in azienda. Ma siamo solo all’inizio del processo.
L’introduzione dell’intelligenza artificiale generativa, che con semplici istruzioni in linguaggio naturale produce testi e soluzioni grafiche di grande capacità comunicativa, fa pensare che molte altre mansioni potrebbero essere sostituite. E in particolare quelle che gli apprendisti svolgono quando iniziano a lavorare: il che potrebbe penalizzare proprio i giovani.
Il vero pericolo, però, già visibile agli occhi degli specialisti della cybersecurity, è che queste tecnologie vengano usate da malfattori che truffano le persone online, mettono in giro disinformazione, fanno propaganda senza rispettare le regole. La politica dell’Europa in materia è decisamente orientata a considerare responsabili le piattaforme che non difendono i loro utenti da questi rischi. E allo stesso tempo tenta di contrastare la crescita eccessiva delle piattaforme che possono conquistare posizioni dominanti o veri e propri monopoli. Due regolamenti già entrati in vigore, il Digital Services Act e il Digital Markets Act, sono pensati proprio per questi obiettivi.
Nel mondo, questa policy europea fa scuola. Ormai è chiaro anche negli Stati Uniti che un digitale senza regole è rischioso per la qualità della vita sociale. Ma l’impatto europeo è soprattutto quello che può avere un grande mercato di sbocco che impone le sue regole ai fornitori. L’industria europea del digitale è decisamente meno sviluppata di quanto potrebbe, specialmente nei servizi per i consumatori. Ma per avere una riscossa da questo punto di vista non bastano certo le regole: occorrono gli investimenti, la formazione e soprattutto gli spiriti imprenditoriali.
Il codice del futuro Il 15 dicembre del 2022, le presidenze della Commissione, del Parlamento e del Consiglio europeo hanno firmato la Dichiarazione sui principi e i diritti nella decade digitale. Con questo documento le istituzioni europee raccolgono gli obiettivi della politica digitale europea e prendono gli impegni necessari a realizzarli.
A questa Dichiarazione è dedicato il libro di Roberto Viola e Luca De Biase, “Il codice del futuro”, Il Sole 24 Ore, 2023, 174 pagine, 16,90 euro.