«Avremo l’intelligenza artificiale anche dentro al nostro corpo». Come ha detto al Festival della scienza di Genova l’informatica Paola Inverardi, rettrice del Gran Sasso Science Institute, il futuro è sempre più cyborg. L’espressione “intelligenza artificiale” (mutuata dall’inglese Artificiale Intelligence, AI) è stata usata per la prima volta nel 1956 da un informatico statunitense, John McCarthy. Già allora si parlava di machine learning (computer che apprendono autonomamente dei dati) e di reti neuronali artificiali, ma le macchine non erano ancora in grado di elaborare masse di dati. Aumentando a dismisura la capacità computazionale dei sistemi specie negli ultimi 15 anni, oggi IA, l’intelligenza artificiale (tecnologie, algoritmi, modelli digitali, macchine), è in grado di ragionare, apprendere e percepire l’ambiente circostante.
Ed è già in mezzo a noi: ci fa stare in coda da casa per raggiungere in seguito l’ufficio pubblico o l’ospedale (le chiamano code smart). Un curriculum che abbiamo inviato a un’azienda può essere vagliato da un algoritmo e così negli istituti di credito l’IA interviene nella valutazione dei clienti in merito alla capacità di credito. Prima o poi in un bar o in un ristorante potremmo avere a che fare con robot-camerieri: ci sono prototipi di robot-chef in Europa come in Cina e l’Università di Napoli ha creato Brillo (Bartending Robot for Interactive Long Lasting Operations).
Nelle nostre case e in auto ci sono dispositivi di IA come gli speaker di Alexa, di Siri e di Google, oppure robot aspirapolvere che lavano moquette in autonomia o mappano l’abitazione per pulirla, o ancora lavatrici intelligenti che decidono come fare il bucato. Per ora i robot casalinghi più sofisticati costano parecchio (servono 1.500 dollari per un robottino su due ruote che pulisce la casa, negli Usa), ma riducendosi il prezzo l’AI abiterà sempre di più il nostro mondo. Ecco perché qualcuno parla di rivoluzione algoritmica, dopo quella industriale a cavallo tra Otto e Novecento.
Le sue applicazioni oggi sono moltissime: l’IA serve a razionalizzare la produzione industriale, rende più efficienti le infrastrutture e la rete di trasporti, interviene in modelli sul cambiamento climatico, è applicata nell’agricoltura (ad esempio per diagnosticare le malattie nelle piante) e anche nella medicina. Sono algoritmi di intelligenza artificiale quelli usati dalle aziende di consegne a domicilio per valutare la performance dei rider. Nella pubblica amministrazione le macchine possono aiutare nelle procedure dei concorsi o per gli appalti pubblici, oppure sondare gli umori dei cittadini, come ha fatto la città di Dublino con un software di analisi di tweet. Nell’ambito della giustizia, sono IA le macchine utilizzate negli Stati Uniti per calcolare il rischio di recidiva e pericolosità sociale delle persone e comminare pene. «A mio avviso siamo davanti a una delle primavera dell’algoritmo – dice la sociologa Elena Esposito, docente all’Università di Bologna e autrice del libro “Comunicazione artificiale-Come gli algoritmi producono intelligenza sociale” (Bocconi University Press editore) – Attenzione però: le macchine non hanno imparato a ragionare come noi, piuttosto non cercano più di farlo e questa è la chiave del loro successo. Hanno imparato a comunicare con noi raccogliendo i Big Data e la mole di informazioni che lasciamo sul web. Quindi più che di IA dovremo parlare di una nuova forma di comunicazione artificiale».
Le paure dei consumatori Certo l’evoluzione tecnologica repentina porta anche paure e preoccupazioni: secondo una ricerca del Politecnico di Milano e BVA Doxa su un campione di mille cittadini tra i 18 e i 74 anni, solo il 5 per cento ha un’opinione molto negativa dell’IA, mentre il 66% ne ha una positiva, ma il 48 per cento teme il robot badante, il 47 il consulente finanziario digitale che gestisce autonomamente investimenti, il 41% ha paura dell’automobile a guida autonoma e infine il 35 paventa il sistema di autodiagnosi senza intervento del medico. Comunque, il 95 per cento ha sentito parlare di IA, anche se solo il 60 conosce funzioni IA sui dispositivi che usa. E a proposito di paure: «Siamo di fronte a sistemi autonomi che prendono decisioni per conto loro – aggiunge Paola Inverardi – Di fatto non interagiamo alla pari con le macchine, diciamo che la tecnologia si è sviluppato in maniera un po’ selvaggia. È come se fossimo nudi – sostiene la studiosa – dobbiamo vestirci e la macchina deve agire secondo la nostra etica». Inverardi, perciò, parla di difesa della dignità umana e del fatto che la persona deve poter intervenire sempre per fare quello che vuole lei e non quello che vuole fare la macchina. Per questo l’esperta di software lavora con un team al progetto di un guscio, un esoscheletro, Exosoul Project, per creare un software proprietario, una specie di patente da portarci dietro e inserire nei dispositivi o robot che usiamo, in cui il singolo può mettere tutte le sue preferenze e le sue scelte etiche.
Certo l’IA può portare immensi benefici alla società, alla crescita economica dei paesi, rafforzare la spinta all’innovazione e alla ricerca e quindi rendere più competitivo un paese. Ma il fatto che una macchina sia in grado di apprendere ed agire da sola (spesso a nostra insaputa) fa nascere parecchi dubbi circa la progettazione, il rischio di discriminazione razziale o di genere, il rischio di controllo sociale. Fa paura il concetto di funzionamento autonomo delle reti neurali artificiali e quindi, più in generale, il fatto che possa non esserci un controllo umano sulle decisioni della macchina. Per di più a livello legale, non è ancora chiaro quali saranno le responsabilità del produttore, di chi la istruisce e di chi la possiede e la forma. Perciò la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’Intelligenza artificiale (Legge sull’intelligenza artificiale) e modifica di alcuni atti legislativi dell’Unione” – questo il titolo per esteso -, presentata dalla Commissione europea lo scorso 21 aprile, propone di vietare per gli stati Ue utilizzare l’IA per decidere chi accede a servizi valutandone l’affidabilità (il cosiddetto social scoring), sfruttare la vulnerabilità di soggetti fragili (bambini, anziani o portatori di handicap) attraverso la manipolazione, oppure impiegare l’IA per pratiche discriminatorie come decidere sull’asilo agli immigrati.
Le regole UE avranno un forte impatto sui produttori, in testa la Cina che ha il 34,6 dei brevetti su IA, seguita da Giappone con 20,8%, Corea del Sud con 15,4% e Stati Uniti col 13,2%, secondo un report 2021 di Cset-Center for Security and Emerging Technology (per avere un’idea del divario nello stesso report l’Italia si attesta allo 0,5 dei brevetti). Secondo la proposta Ue i produttori dovranno presentare una dichiarazione di conformità prima dell’esportazione dei loro prodotti nella Ue, e in caso di violazioni la Commissione propone sanzioni fino a 30 milioni di euro o il 6 per cento del fatturato mondiale dell’azienda coinvolta. Ora la parola passa al Parlamento e agli Stati europei.
A che punto è l’Italia Secondo il Report ‘Intelligenza Artificiale: l’Italia s’è desta! della School of Managment-Dipartimento di elettronica, informazione e bioingegneria, il Politecnico di Milano-Dipartimento ingegneria gestionale e Osservatori Digital Innovation-osservatori.net (pubblicato a febbraio 2022), il mercato italiano dell’IA è tornato a crescere (+27% nel 2021 per un valore di 380 milioni di euro, valore raddoppiato in due anni). I principali settori di utilizzo sono in Italia il settore bancario (21%), energia e utility (15%), manifatturiero (13,5), telecomunicazioni e media (10) e assicurazioni (10). Secondo uno studio contenuto nel Report, che ha indagato presso 200 grandi imprese italiane e 516 piccole e medie imprese, il 59% delle grandi imprese ha avviato almeno un progetto di IA, mentre tra le Pmi solo il 6% lo ha fatto.
I finanziamenti nel settore stanno arrivando anche dal Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), il programma di investimenti nell’ambito del NextGenerationEU, il mega programma europeo da 222,1 miliardi di euro, tra Dispositivo per la ripresa e la resilienza post-Covid e Fondo complementare nazionale. Il Pnrr parla esplicitamente di investimenti nell’IA in diversi settori: amministrazione pubblica, turismo, gestione dei rifiuti, infrastrutture e sanità. Ad esempio, si pensa alla realizzazione di una piattaforma unica per il reclutamento del personale nell’Amministrazione centrale e la semplificazione e razionalizzazione della legislazione. In ambito turistico, si prevede la creazione di un hub di turismo digitale e per la gestione dei rifiuti l’IA potrebbe diventare un elemento competitivo per la realizzazione di nuovi impianti di gestione rifiuti e l’ammodernamento di quelli esistenti. (Alessandra Fava)