Web libero. E sicuro?
Internet è sempre più potente, ma chi controlla l'enorme mole di dati che viaggia sulla rete? Anche il G8 ha dedicato una sessione a discutere di queste cose, tra problemi di sicurezza e regole
Milioni di utenti collegati ai server della Sony per giocare, vedere film o comprare musica, sono stati scippati dei numeri di carte di credito, gusti personali, scelte individuali. Dati "sensibili", come si dice, rubati per essere, forse, venduti al miglior offerente.
Migliaia di utenti di Poste Italiane, il mese scorso, sono stati bloccati dal crash del sistema informatico che ha provocato ritardi dei pagamenti di multe, tasse, mutui, bonifici, bollette.
Sono un paio di casi – uno internazionale e l’altro tutto nostrano – che testimoniano quanto i sistemi di sicurezza in rete siano un colabrodo. Non è più, e non solo, una questione di privacy: è qualcosa che ormai riguarda la libertà di comunicare liberamente e di accedere alla conoscenza. Comunicheremmo liberamente con la nostra banca on line se sapessimo che i nostri dati potrebbero esserci sottratti? Confideremmo via Facebook a un amico le nostre idee politiche se avessimo il sospetto che qualcuno ci ascolta? Crederemmo alle informazioni che troviamo on line se sapessimo che in ogni momento un hacker può sovvertirle o inquinarle?
La risposta è, ovviamente, no. Tanto più che adesso la posta si sta alzando e perché c’è da garantire la sicurezza della "nuvola", il cloud computing, ovvero il futuro stesso della tecnologia informatica. Che potrà svilupparsi soltanto conservando i dati non nelle memorie dei nostri computer, ma in server dislocati altrove, nei "cloud", appunto. Una tecnologia già ampiamente utilizzata: senza i cloud, tutta l’informatica portabile – dagli smartphone ai tablet – non potrebbe funzionare perché il suo hardware è leggerissimo. Anche le piccole e medie aziende ne traggono già molti vantaggi: con la tecnologia cloud possono liberarsi dal peso economico di mantenere al loro interno tutta l’information technology.
Dunque è difficile poter rinunciare a queste risorse informatiche e sono in molti a ritenere che valga la pena correre il rischio rispetto ai benefici che si hanno utilizzando la rete e i social network. Così la pensa sostanzialmente Lucio Picci, professore di economia all'Università di Bologna, spiega: "A mano a mano che tutti i dati rilevanti (e tra questi, i nostri personali) si trovano in rete, diventiamo sempre più dipendenti dal funzionamento della rete in generale. Ogni volta che l’uomo crea un’altra ‘appendice tecnologica’ alla sua vita, in un certo senso, perde un po’ di libertà e, mentre diventa più potente, diventa anche più vulnerabile". David Kirckpatrick, giornalista ed esperto di tecnologia, sostiene che tuttavia ormai è impossibile rinunciare ai social network: "Fare questa scelta – spiega – significherebbe tenersi fuori dal mondo. Piuttosto meglio cercare di evitare i rischi connessi al loro uso. Così come non usciremmo mai di sera con persone che non ci piacciono, allo stesso modo, su Facebook o altri network, è meglio evitare di frequentare persone che non siano perbene. Piuttosto che cancellare Facebook, ciascuno di noi dovrebbe cancellare dalla propria lista di amici le persone che ci fanno perdere tempo". Particolarmente importante – e se lo dice Kirkpatrick, che ha scritto un libro sul fenomeno Facebook, c’è da credergli – è che soprattutto gli adolescenti capiscano le implicazioni di uno strumento che non è affatto un gioco: "Dovrebbero insegnarlo a scuola, perché prima di cominciare a fare i primi passi su Facebook bisogna conoscerne le implicazioni. A partire dal fatto che tutto quello che mettiamo in rete diventa di tutti".
Più che di tutti, verrebbe da dire, di una persona sola. Se vogliamo parlare di Facebook, ad esempio, è il signor Mark Zuckerberg – che ne è fondatore – il custode delle nostre vite digitali. "Chi detiene davvero i diritti di proprietà su una tale mole di dati?" si chiede Kirkpatrick. "E cosa succederebbe se qualcuno decidesse di esercitare una qualche forma di controllo su questi dati? Non solo: è giusto che siano poche aziende a detenere e a controllare la gran parte di ciò che gira in rete?".
Ma oltre alla nostra privacy, c’è un altro rischio in agguato. Le nostre vite sono ormai completamente digitalizzate, ormai tutte le nostre attività girano in rete e, soprattutto, i social network sono diventati un potentissimo strumento di comunicazione politica. Molti osservatori si dicono certi che i nuovi movimenti (da quelli dei rivoltosi in Nord Africa e Medio Oriente agli Indignados spagnoli, fino a quelli dei referendari, in particolare, quello del Popolo dell’acqua pubblica) avrebbero avuto meno gambe senza i social network in generale e Facebook in particolare. Il web 2.0 è diventato il tramite di una comunicazione politica auto organizzata dal basso che ha bypassato i partiti, ha usato un nuovo linguaggio e si è trasformata in piazza reale (da virtuale che era). Che succederebbe se qualcuno, con intenti censori o punitivi, "spegnesse" Facebook? O anche: non equivarrebbe a un attacco di terrorismo spegnere le comunicazioni digitali di un’intero paese? Quale difesa è possibile?
Non è un caso che anche i paesi del G8 abbiano tentato di affrontare questi temi con una speciale sessione dedicata al web, cui hanno preso parte, oltre ai capi di stato, anche le più importanti web company mondiali. Nel documento licenziato alla fine si legge che la Rete è diventata "essenziale per le nostre società, economie e per la loro crescita". Per i paesi del G8 "l’apertura, la trasparenza e la libertà del web sono state chiavi del suo sviluppo e del suo successo" che insieme ai principi della "non discriminazione e della corretta competizione, devono continuare a essere una forza essenziale per il suo sviluppo". Nel testo si legge anche che "ogni censura o restrizione arbitraria o indiscriminata all’accesso a internet è incompatibile con gli obblighi internazionali degli stati ed inaccettabile". Si incoraggia perciò l’uso di internet "come strumento per far avanzare i diritti umani e la partecipazione democratica in tutto il mondo e si auspica lo sviluppo della banda larga, nonché le "opportunità emergenti" come il cloud computing e i social network. Infine i capi di stato auspicano coordinamento tra governi, settore privato e società civile per la privacy, la sicurezza del web e dei servizi on line. Un documento che è stato da più parti giudicato molto generico e poco impegnativo. Così la pensa Stefano Rodotà, che è stato garante della privacy fino al 2005: "I pallidi e retorici accenni alla privacy nel comunicato del G8 – ha scritto – e l’assenza di riferimenti alle posizioni dominanti di molte imprese rivelano l’intento di una politica che vuole salvaguardare i propri poteri autoritari riconoscendo alle imprese un potere altrettanto autoritario".
Silvia Fabbri