In un anno i disoccupati in Italia sono cresciuti di 600 mila unità. Il tasso di chi non ha un lavoro è salito all’8,6%, ma tra i giovani si arriva al 26,3%. Una fase difficile, ma il nodo vero è la proospettiva futura dell’industria. E servono politiche per la ripresa
Gli ultimi dati disponibili sono quelli di gennaio 2010, e sono dati drammatici. Il tasso di disoccupazione in Italia è arrivato all’8,6%, cioè 307 mila disoccupati in più rispetto al gennaio del 2009. Le persone in cerca di occupazione sono 2 milioni e 144 mila. La disoccupazione morde e colpisce soprattutto i giovani, perchè nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni a essere in cerca di un lavoro è addirittura il 26,8%.
E in aggiunta a queste cifre, sono da aggiungere le centinaia di migliaia di persone che stanno usufruendo degli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione, nella speranza che la fase di difficoltà della loro azienda sia transitoria e non strutturale. Secondo le stime della Banca d’Italia «sommando i lavoratori in Cig e gli scoraggiati (cioè quelli che il lavoro hanno smesso di cercarlo convinti che non si trovi ndr) ai disoccupati, il numero di persone non impiegate, ma potenzialmente impiegabili, nel processo produttivo» raggiunge quota 2,6 milioni circa, contro i due milioni di un anno fa. Dunque un balzo negativo di 600 mila unità.
Ma andando oltre queste pur significative cifre, il punto più delicato è la prospettiva. Perchè se è vero che il 2010 sarà un anno ancora molto difficile sul piano dell’occupazione (dopo il meno 5% del Pil nel 2009, la speranza per quest’anno è in una modesta crescita intorno allo 0,8%), la preoccupazione maggiore è legata, non tanto al come superare l’ennesima stretta, ma al capire quale sarà il destino di interi settori industriali, destinati a quanto pare, ad andare incontro a ridimensionamenti significativi.
Con tutto le conseguenze che ciò comporta per le grandi industrie come per le migliaia di piccole imprese dell’indotto. Il timore (per alcuni già una realtà) è che la modestissima ripresa del 2010, sul piano dell’occupazione non produrrà alcun risultato, lasciando inalterati i segni meno di oggi. Basta pensare al mondo dell’automobile, destinato a significativi cali. Opel ha presentato un piano che prevede il taglio di 8.300 posti.
Ma anche lasciando da parte le valutazioni sul sistema mondiale dell’auto, nel quale si prevede il numero di produttori sia destinato a calare (vedi la fusione tra Fiat e Chrysler), basta guardare solo all’orto italiano, dove la fine degli incentivi statali all’acquisto, significherà 400 mila vetture in meno vendute nel 2010 e un calo del mercato europeo del 16%.
Da queste cifre facile immaginarsi le conseguenze a cascata che ci saranno. Non a caso, come in un effetto domino incontrollabile, nel 2009 in Italia ci sono stati oltre 9 mila fallimenti di industrie, il 23% in più sull’anno precedente (e già il 2008 era stato un anno finito in forte crescita). Ogni giorno muoiono nel nostro paese 24 imprese. Una tendenza negativa che abbraccia diversi settori, con quello delle costruzioni (+31%) in testa. Il numero due di Confindustria, Guidalberto Guidi, ha parlato di un rischio di ridimensionamento dell’industria manifatturiera in Italia nell’ordine del 30-40%.
Del resto il valore della produzione industriale italiana è crollato del 26% nel 2009 e, secondo le stime, non tornerà ai livelli del 2008 prima della fine del 2013.
Una fotografia che ci rimanda al punto di partenza. Cioè che la crisi occupazionale non è per niente finita e anzi, come spiega dettagliatamente il professor Luciano Gallino nell’intervista in queste pagine, non solo è destinata a durare, ma se non si affrontano nodi di fondo, a cominciare da quello dello strapotere della finanza, di cui l’economia e l’industria finiscono per essere una sorta di settore derivato, molto lontano non si va.
Poi certo, più nello specifico, servono investimenti, politiche industriali sui diversi settori, scelte innovative e così via. Anche perchè se il panorama complessivamente è quello descritto, qualche segno positivo si trova, ci sono settori che tengono meglio di altri, realtà (basta pensare alla green economy) che hanno ampi margini di crescita. C’è poi il dato del mondo cooperativo (vedi la scheda su Legacoop) che conferma, come anche in una fase così difficile, una tenuta occupazionale e dei fatturati sia possibile. A tutti servirebbe comunque una politica capace di stare sui problemi concreti, di definire opzioni precise e di fare scelte coraggiose. Tutte cose che però, per ora, non sembrano abbondare. Nè sulla scena italiana, nè su quella mondiale.