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“Stop deforestazione, prima che sia tardi”

"Stop alla deforestazione,
prima che sia troppo tardi"

Intervista al professor Riccardo Valentini, membro dell'Icpp che ha studiato le cause dei cambiamenti del clima nel nostri pianeta

In Italia non è cosa poco nota, ma Riccardo Valentini, docente dell’Università della Tuscia e direttore della divisione che studia l’impatto del cambiamento climatico sull’agricoltura e il sistema forestale del Mediterraneo, è un vincitore del premio Nobel per la pace del 2007. Lo ha vinto come membro dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), ovvero il gruppo di lavoro costituito dall’Onu nel 1988 per studiare le cause del cambiamento climatico. Motivazione del premio (condiviso col vice-presidente Usa Al Gore), "l’impegno profuso nella costruzione e nella divulgazione di una maggiore conoscenza sui cambiamenti climatici antropogenici, e nel porre le basi per le misure che sono necessarie per contrastarli". Col professor Valentini, che ha contribuito alla progettazione della campagna Coop, cerchiamo di fotografare lo stato di salute del pianeta.

Dall’Indonesia al bacino amazzonico, qual è la situazione relativamente ai fenomeni di deforestazione nel mondo?
La deforestazione tropicale è un elemento di grave preoccupazione per il nostro futuro, sia perché le foreste tropicali rappresentano gli ecosistemi più ricchi di biodiversità animale e vegetale del pianeta, sia per il fatto che le emissioni di gas serra stanno aumentando anche a causa della distruzione delle foreste, e di conseguenza si avvicina il pericolo di un riscaldamento globale. Oggi la deforestazione (media 2000-2010) è stimata in circa 13 milioni di ettari all’anno quindi in leggera diminuzione rispetto agli anni ‘90 (16 milioni di ettari all’anno).

Se si continua con questi ritmi, quanto tempo abbiamo prima di compromettere questo patrimonio?
Dal punto di vista della stabilità del clima i prossimi 20 anni saranno decisivi per stabilizzare il riscaldamento globale all’interno dei 2 ° C, soglia ritenuta vitale per il futuro dell’umanità. Tuttavia per quanto riguarda la biodiversità, in vaste regioni del pianeta l’equilibrio è già compromesso. È molto difficile ricostruire la complessa organizzazione degli ecosistemi, forse non basta qualche migliaio di anni per ritornare al punto di partenza. La priorità è quella di bloccare il fenomeno oggi, soprattutto in alcune aree che sono fuori dal controllo internazionale, ad esempio il bacino del Congo in Africa o le regioni amazzoniche del Perù e del Venzuela.

Esistono esempi di paesi in cui si è riusciti con successo a intervenire a tutela di boschi e foreste?
Il Brasile ha fatto degli importanti passi avanti riducendo di circa il 12% la deforestazione rispetto agli anni ‘90. L’Indonesia ha addirittura ridotto del 70%. Ad oggi sono allo studio meccanismi internazionali per la protezione delle foreste, tuttavia il problema è anche economico e sociale. Ad esempio in Amazzonia, come in alcune regioni dell’Africa, la deforestazione avviene anche per creare nuove terre agricole e coltivare prodotti agricoli per soddisfare il bisogno di cibo legato all’espansione demografica. Quindi nella lotta alla deforestazione bisogna anche promuovere fonti alternative di agricoltura e sostentamento per le popolazioni locali, ad esempio mediante una agricoltura più efficiente, in grado di soddisfare i bisogni primari di alimentazione.

Lei ha fatto parte del gruppo di scienziati dell’Ipcc, il comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici. Può spiegarci come influisce la deforestazione sui cambiamenti del clima e che peso ha?
La deforestazione nell’anno 2010 ha contribuito a circa 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica su scala globale. Si tratta di circa l’11% di tutte le emissioni di combustibili fossili. Se pensiamo che oggi l’unico trattato vigente che ci permette di contenere il riscaldamento climatico (il Protocollo di Kyoto) ha come obiettivo la riduzione del 5,2% (in realtà ad oggi siamo a circa il 2,5%) delle emissioni di combustibili fossili, ci rendiamo conto come la conservazione delle foreste da sola costituirebbe più del doppio degli obiettivi di riduzione globali e sicuramente preservando molte altre funzionalità, come la difesa della biodiversità. Le foreste tropicali inoltre sono essenziali per mantenere il clima locale. È stato dimostrato in Amazzonia che l’aumento della deforestazione ha ridotto a livello regionale le precipitazioni inaridendo il terreno e rendendo più difficile l’agricoltura.
La lotta alla deforestazione tropicale è inoltre essenziale per contenere il riscaldamento globale all’interno dei 2 ° C. Per ottenere questo obiettivo bisogna ridurre di circa il 50% le emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050. Non vi è dubbio che questa sfida è impossibile da raggiungere senza includere la lotta alla deforestazione tropicale tra le varie misure e tecnologie di riduzione delle emissioni.

Restando sul lavoro dell’Ipcc, può riassumerci brevemente le conclusioni a cui siete giunti in relazione all’impatto delle attività umane sul riscaldamento del pianeta?
Le conclusioni del rapporto IPCC AR4 ha mostrato inequivocabilmente il ruolo dell’uomo nel modificare l’atmosfera del Pianeta e nell’introdurre con l’inquinamento sostanze gassose che alterano il bilancio energetico planetario e destabilizzano il clima provocando il riscaldamento globale. Gli scenari climatici prevedono un riscaldamento tra i 2 ed i 6 ° C, ovviamente con un certo grado di incertezza, che riflette la complessità della scienza del clima e la difficoltà a prevedere con certezza il futuro. Tuttavia il rapporto ci fornisce anche i dati storici dell’ultimo secolo che mostrano un riscaldamento globale di circa 0,8 ° C . Si tratta di dati raccolti sia sulla terra che sulla superficie degli oceani e che concordano nel mostrare un lento riscaldamento globale. Inoltre vengono presentate anche evidenze di un aumento degli estremi climatici e di fenomeni distruttivi che potrebbero manifestarsi con maggiore frequenza nel prossimo futuro. Ad oggi è appena partito il nuovo studio AR5 che verrà alla luce nel 2012 e ci fornirà un ulteriore contributo alla comprensione del riscaldamento globale.

Le decisioni assunte dai governi, che pure tanto faticano a tradursi in realtà (come il protocollo di Kyoto), rappresentano una risposta sufficiente?
È ormai appurato che il Protocollo di Kyoto non è sufficiente a ridurre i pericoli di un riscaldamento globale. È necessario ed urgente formulare un accordo con impegni di riduzione più sostanziosi (es. 50% di riduzione entro il 2050), ma soprattutto tenere all’interno degli obblighi di riduzione anche gli Stati Uniti e le economie emergenti come Cina, India e Brasile. In particolare oggi la Cina è il paese maggiormente inquinante, anche più degli USA, con una economia in forte crescita. Il suo contributo è quindi fondamentale per la lotta al riscaldamento climatico.



Dario Guidi

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