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“Se non si ridimensiona la finanza…”



“Se non si ridimensiona la finanza…”

Intervista a Luciano Gallino: “Ancora anni difficili sul piano dell’occupazione”

 

Sul piano dell’occupazione il futuro si prospetta molto critico per almeno due tre anni, se non di più”, parola di Luciano Gallino, sociologo, tra i più attenti osservatori del mondo del lavoro.

Professore, perchè ancora due o tre anni?

Ci sono dati su cui concordano i numerosi rapporti internazionali, di agenzie e istituti di ricerca. Non dimentichiamo che l’esperienza di precedenti crisi economiche dice che per tornare a recuperare in pieno i livelli occupazionali, dopo una grande crisi, servono mediamente 7 anni. E questo ammettendo che tutto, prima o poi, torni esattamente come prima. Cosa che ritengo del tutto improbabile. Quindi le nostre società devono prepararsi a convivere con un notevole livello di disoccupati di lungo periodo, cioè di persone che si trovano senza lavoro per almeno 2 o 3 anni, con un aumento delle occupazioni malpagate e sottopagate. Quest’ultimo è un fenomeno presente in tutta Europa. A questo si aggiunge il problema delle persone dai 40/50 anni che, se anche riusciranno a ritrovare un lavoro, sarà con condizioni decisamente peggiori rispetto a quelle che avevano prima della crisi. Dunque ci saranno da gestire effetti molto pesanti e destinati a durare nel tempo.

Gli ammortizzatori sociali basteranno ad affrontare le difficoltà dei prossimi mesi?

Gli ammortizzatori sociali vanno sicuramente estesi e rafforzati. Strumenti come la Cassa integrazione, sono fondamentali per attenuare l’impatto della crisi. Ma si tratta anche di strumenti che non incidono a monte, cioè sulle cause di determinate situazioni. Io credo serva qualcosa di sistematico a sostegno del reddito, in particolare per le nuove generazioni che sono quelle più colpite dalla disoccupazione. Solo che i giovani in cerca di prima occupazione sono esclusi dagli attuali strumenti disponibili, Cassa integrazione in testa, riservata a chi ha già lavorato. Occorre introdurre elementi nuovi, tipo il reddito di solidarietà che c’è in Francia e funziona molto bene.

Se come lei pensa uscirà da questa crisi una società diversa da quella che abbiamo visto negli ultimi anni, che posto avrà il lavoro?

È chiaro che è in atto una ristrutturazione delle attività produttive. Si tratta del completamento di un processo partito già da diversi anni, di un progetto politico che vede le forze del lavoro e i sindacati sempre più indeboliti. Quello che dunque occorrerebbe è una svolta sul piano politico e culturale. La scossa della crisi è stata forte, vediamo se si saprà invertire una tendenza.

Cambierà anche la considerazione e l’atteggiamento verso il lavoro?

Certo per molti occorrerà tornare a fare lavori che non si sarebbero voluti fare. Ma i laureati in fisica che fanno i bagnini o le laureate in biologia che fanno le commesse, non sono una novità di oggi. Sono la conferma di una male profondo. Del resto quando si smette di investire su innovazione e ricerca si smette di puntare sul futuro. Il caso della casa farmaceutica Glaxo che vuol chiudere il centro di Verona, dove lavorano oltre 500 ricercatori di primissima fascia è l’ennesima conferma di quanto sto dicendo e della miopia di certe scelte.

La crisi attuale è nata nella finanza ma si è rovesciata sull’economia e sulle famiglie. Se non si mette in discussione questo rapporto non si va da nessuna parte

Guardi sto scrivendo un libro incentrato su queste cose. La mia tesi di fondo è che in questi ultimi anni l’impresa industriale è stata totalmente finanziarizzata, cessando di essere un’organizzazione nella quale ogni parte è legata alle altre e il cui funzionamento tocca interessi di molti gruppi, dai dipendenti alle comunità locali agli azionisti. Invece quel che conta è solo il rendimento finanziario nell’immediato. Se questo non c’è si taglia.

Da mesi si discute sulle misure per evitare che le distorsioni legate alla speculazione possano ripetersi. A che punto siamo?

Paradossalmente i dati attuali ci dicono che il peso della finanza si è accresciuto, proprio grazie agli ingenti capitali pubblici che sono serviti al salvataggio delle grandi banche, negli Usa ma non solo. È un paradosso, ma per tamponare la crisi, alla fine le dimensioni delle istituzioni che l’hanno causata si sono accresciute. Ci sono dozzine di rapporti che indicano nel peso spropositato della finanza il problema da affrontare. Ma fino a che le varie forme di speculazione valgono da 4 a 6 volte il Pil mondiale, siamo al punto di partenza.

Lei vede segnali di una volontà di affrontare questo nodo?

Personalmente mi pare che le proposte del presidente Obama (finalmente presentate dai democratici al Senato Usa con l’annunciata contrarietà dei repubblicani ndr) risentano ancora molto del suo essere prigioniero della lobby di Wall Street, da cui vengono molti dei suoi collaboratori. Certo si parla di rafforzare le garanzie per i consumatori e di maggiori controlli. Ma se proprio devo dire, il paese in cui mi pare ci siano sul tappeto le proposte più incisive e significative è la Gran Bretagna, che è anche una delle realtà che proporzionalmente ha pagato di più la crisi. In Gran Bretagna oggi si parla esplicitamente di restringimento dell’attività bancaria, di separazione tra attività legata alla raccolta del prestito e agli investimenti. In sede di Unione Europea la discussione è ancora molto centrata sulla vigilanza. Nelle ultime settimane il dibattito è ripartito, ma bisogna pensare alle crepe nei muri e non solo a dei ritocchi. La speranza che davvero si riesca a incidere sul peso della finanza non è tanta. Nel 2008, subito dopo il crollo della Lehman Brothers sembrava che i potenti della terra avessero appreso la lezione. Ma ormai, a un anno e mezzo di distanza, siamo ancora fermi e molte buone intenzioni sono ancora nel cassetto.


Dario Guidi

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