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Noi e la Grecia. Dopo i tagli serve il rilancio


La Grecia e noi

Con i tagli serve il rilancio

 




Dopo la manovra economica del Governo la preoccupazione di Regioni ed enti locali per gli effetti sulle famiglie e sulla rete dei servizi. Ruolo del pubblico da difendere

 

Forse ci sarà qualche ritocco, ma la sostanza della manovra economica da quasi 25 miliardi difficilmente cambierà: mannaia sugli statali, tempi più lunghi per le pensioni, tagli agli Enti Locali, la promessa di un recupero dell’evasione fiscale (dopo tanti condoni) e l’annuncio di una ripresa che non potrà contare certo sul rilancio dei consumi scesi ancora dell’1,7 per cento secondo i dati diffusi da Confcommercio a metà giugno. La molla che ha scatenato il panico in Europa è scattata sulle rive dell’Egeo, in quella Grecia additata da tutti come la pecora nera del continente con il suo debito pubblico stratosferico, tenuto nascosto dai governi che hanno preceduto quello attuale con la complicità di qualche potente società finanziaria internazionale che poi non ha esitato a speculare sull’Euro determinando così una reazione a catena che ha costretto un po’ tutti gli Stati a mettere ordine nei propri conti.

Una reazione, basta pensare a quanto ha deciso di fare la Germania (che ha stabilito di azzerare i propri debiti con una manovra da 60 miliardi di euro in 6 anni), che non pare quindi destinata a esaurirsi nel giro di pochi mesi, ma rischia di innescare meccanismi profondi di revisione delle politiche di spesa sin qui adottate e dunque di impattare sui livelli dei servizi offerti ai cittadini che in Europa sono i più importanti e consolidati. Ma davvero la ricetta giusta è tagliare lo stato sociale?

«Il debito pubblico non dipende dallo stato sociale – commenta l’economista Laura Pennacchi, direttrice della scuola di politica della fondazione Basso –. I bilanci pubblici sono andati in crisi perchè hanno salvato il sistema finanziario mondiale, gli intermediari finanziari, le banche, gli speculatori, che ora, rivivificati dagli Stati, tornano ad operare come sempre». In effetti, dati alla mano, il debito pubblico ha cominciato a crescere dagli anni Ottanta per colpa delle politiche liberiste. E non a caso Obama ha dedicato la prima parte del suo mandato a introdurre una riforma sanitaria universalista, che dunque allarga lo stato sociale, ispirandosi proprio al modello europeo. Stando a ciò che suggerisce il sondaggio condotto da Demos-Coop per l’Osservatorio sul Capitale sociale, gli italiani sembrano essere consapevoli che questa non è una crisi come tutte le altre. Quasi il 60 per cento, infatti, considera i problemi economici prioritari (surclassando i problemi della sicurezza). Tre anni fa erano il 37 per cento. Non solo. La maggioranza degli italiani pensa anche che il governo abbia mentito sulla crisi. Il 17% delle famiglie è in condizione di grave disagio e un altro 30% ha comunque vissuto episodi di difficoltà. Se gli italiani sono sempre stati convinti che una maniera di cavarsela la si sarebbe trovata, ora qualche dubbio comincia a spuntare

 


Una manovra da 500 euro a famiglia

È come se una verità si stesse svelando sotto gli occhi di tutti. Incertezza personale, unita alla prospettiva di avere meno servizi fondamentali, dall’istruzione alla sanità, più una stretta sulle pensioni.

Secondo le associazioni dei consumatori la manovra economica peserà per oltre 500 euro l’anno sui bilanci delle famiglie italiane e per oltre 1.800 sugli stipendi degli statali. Ã‚Â«È inevitabile che i tagli agli Enti locali, alla faccia del tanto declamato federalismo, si tradurranno in un taglio dei servizi ai cittadini o in aumenti tariffari – dice Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori –. Con i tagli al welfare che si preannunciano, saranno dolori per le finanze dei cittadini che di Stato sociale non ne possono fare a meno mentre banche, assicurazioni, petrolieri, imprenditori, commercianti, professionisti, evasori sia totali che parziali, tutt’al più, potranno pagare, come già successo vergognosamente per lo scudo fiscale, qualche euro di condono». È vero che non sono stati annunciati nuovi ticket sulla diagnostica, ma le Regioni avranno meno risorse da destinare ai trasporti e i Comuni non avranno più la copertura per una gestione economicamente sostenibile dei rifiuti per cui dovranno rivedere al rialzo le tariffe. Magari non è lo Stato in prima persona a mettere le mani nelle tasche dei cittadini, ma è lo Stato che obbliga gli Enti locali a farlo.

 


Regioni sul piede di guerra

La Conferenza delle Regioni, per bocca del suo presidente Vasco Errani, ha unanimemente ribadito che la manovra «è irricevibile perchè pesa per oltre il 50 per cento sulle Regioni che stanno facendo la loro parte nella lotta agli sprechi ma questi tagli significano meno risorse per le imprese, per il trasporto pubblico locale, per il welfare, per la scuola».

Ancora più tranchant il giudizio di Roberto Formigoni che stima in 3 miliardi di euro il taglio per la regione Lombardia nel prossimo biennio su un bilancio di 10 miliardi, con «conseguenze dirette sulle politiche per le imprese, sui servizi sociali, e sull’istruzione». Secondo Formigoni, la manovra «incide sulla carne viva di ciò che le Regioni devono fare e manda a gambe all’aria ogni ipotesi di federalismo». Al momento in cui scriviamo la disponibilità del governo a ridiscutere alcuni aspetti della manovra pare esserci. Vedremo come andrà a finire.

Sull’iniquità dei provvedimenti insiste comunque il Presidente della Lega delle Cooperative Giuliano Poletti. «Questa manovra non tocca le rendite finanziarie, i patrimoni, i redditi più alti – dice Poletti – si interviene un po’ sui pubblici dipendenti e essenzialmente su Regioni e Comuni producendo un esisto che è già scritto: o si ridurranno i servizi, o si aumenteranno le tariffe. Se l’obiettivo era quello di promuovere una nuova fase di sviluppo, si dovevano andare a prendere le risorse là dove non sono state prese e dovevano essere destinate a promuovere investimenti e redditi più bassi per rilanciare i consumi». Ma operazioni di questo genere non sono contemplate dal credo neoliberista che, dopo averci scaraventati nella più drammatica crisi dal 1929, è pronto a ritornare sotto mentite spoglie, più forte e pericoloso che mai.

 


La crisi e il ruolo pubblico

«L’attacco è anche culturale e passa per l’aggressione all’idea della responsabilità collettiva – afferma Laura Pennacchi –. Sostenendo che deve esserci solo la responsabilità individuale attraverso il trasferimento del rischio dal collettivo all’individuale, il modello neoliberista ha avuto come proprio motore la generazione di disuguaglianze, con la distribuzione del reddito a danno del lavoro e a vantaggio dei profitti e delle rendite, con la deregolamentazione finanziaria, la cultura del debito alimentata a compensazione di salari stagnanti e con i vantaggi di produttività tutti a favore dei profitti».

Probabilmente questa crisi non è un incidente di percorso, passato il quale tutto può tornare come prima. Forse è la crisi di un intero modello di sviluppo per uscire dal quale c’è bisogno di un nuovo intervento pubblico. Il problema è quale intervento pubblico vogliamo. «Per capirlo occorre un supplemento di riflessione su un nuovo intervento pubblico per lo sviluppo umano – aggiunge Pennacchi –. Bisogna evitare la deriva verso la mera riduzione dei costi. Non possono essere solo queste le linee guida del risanamento economico. Ma allora bisogna prendere le distanze da un certo economicismo deteriore e occorre elaborare nuovi parametri di valutazione del progresso umano».


Aldo Bassoni

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