Medici Senza Frontiere: “Ammalarsi è facile (senza diritti)”
“Ammalarsi è facile (senza diritti)”
Intervista a Rolando Magnano di Medici Senza Frontiere
Arrivano sani in Italia e poi si ammalano perchè quando tornano a casa dai campi non hanno acqua potabile nè luoghi asciutti e salubri dove stare. Sono queste le persone che sostengono gran parte dell’agricoltura nel Sud Italia. «Al momento è difficile fare una mappatura capillare della presenza di migranti nelle regioni del meridione – dice Rolando Magnano di Medici Senza Frontiere –. In genere la manodopera tende a concentrarsi nel foggiano per la raccolta dei pomodori, nella piana di Gioia Tauro e nel siracusano per gli agrumi e nell’area di Castel Volturno». Ma l’elenco potrebbe continuare con i pomodori di Palazzo San Gervasio e della piana del Sele, con i meloni di Metaponto, con l’uva della valle del Belice e decine di altre zone a prevalente vocazione agricola che hanno bisogno di braccia a poco prezzo, senza diritti e senza tutele, possibilmente senza voce.
Da quali malattie sono afflitti in particolare?
«Molti sono affetti da patologie osteomuscolari dovute agli sforzi dei lavori. Altre patologie riguardano la pelle, l’apparato respiratorio e gastroenterico. Le malattie dermatologiche dipendono dal contatto con gli agenti chimici usati in agricoltura. Le patologie dell’apparato respiratorio e gastroenterico sono la conseguenza di una vita estremamente disagiata in questi capannoni o cascinali abbandonati privi di elettricità, servizi igienici e riscaldamento, senza acqua corrente, in mezzo ai rifiuti, esposti continuamente agli agenti atmosferici».
E le strutture sanitarie cosa fanno?
«Poco. Noi sollecitiamo le autorità a intervenire per sanare certe situazioni di assoluta invivibilità. Ci sarebbe urgente bisogno di ambulatori, specialmente in quelle aree agricole a bassa intensità abitativa dove nei periodi della raccolta si concentra una cospicua popolazione di migranti».
E invece?
«Invece questi esseri umani sono abbandonati da tutti, costretti a vivere e a lavorare in condizioni disperate paragonabili a quelle che noi riscontriamo in alcune regioni dell’Africa e dell’Asia. Sono sfruttati e non hanno strumenti per rivendicare neanche i diritti più elementari».
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