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“Io bambino ad Auschwitz”

"Io bambino ad Auschwitz"

Il racconto di Thomas Geve, uno dei pochi ragazzini sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Nei giorni subito dopo la liberazione realizzò una serie di 79 disegni per raccontare al padre lontano ciò che aveva vissuto. Una strordinaria testimonianza per celebrare la Giornata della Memoria

Con i suoi occhi di ragazzino 13enne riuscì a sopravvivere all’orrore di Auschwitz e, nonostante la fatica, le umiliazioni, la fame, la solitudine, la paura, non perse il desiderio di capire ciò che gli stava succedendo. E così, Thomas Geve, non appena poté, non appena qualcuno gli diede fogli e matite colorate, si mise a disegnare per testimoniare una realtà che voleva non fosse dimenticata.
E proprio per questo motivo, a 83 anni, Thomas Geve è venuto in Italia (da Israele dove vive), per inaugurare la mostra dei suoi disegni, in occasione del Giorno della memoria. La data che il mondo ha fissato per ricordare la Shoah, cioè lo sterminio di milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti. In giorni nei quali, purtroppo anche in Italia, episodi di razzismo e antisemitismo segnano le cronache, proprio attraverso la testimonianza di una persona che è sopravvissuta ad Auschwitz, vogliamo, come rivista, unirci al coro di chi vuole preservare la memoria di quanto è avvenuto affinché non si ripeta mai più. 

Signor Geve, quanti anni aveva e come finì in un campo di concentramento?
Sono nato a Stettino in Polonia, nell’ottobre del 1929. Avevo tre anni quando Hitler salì al potere. Alla fine del 1938 mio padre, non potendo più esercitare la professione di medico in quanto ebreo, si trasferì in Inghilterra. Nonostante ripetuti tentativi io e mia madre non riuscimmo a raggiungerlo. Nel 1942, quando tutte le scuole ebraiche furono chiuse trovai lavoro al cimitero ebraico, prima come giardiniere e poi come becchino. Nel 1943 venni arrestato una prima volta, e fui subito liberato grazie al fatto che lavoravo. Ma a giugno arrivò un secondo arresto che mi costò la deportazione ad Auschwitz insieme a mia madre. Ma subito ci separarono e io non la vidi mai più.

Quale era il destino dei bambini nei campi di sterminio nazisti e lei come riuscì a salvarsi?
Come evoca il titolo della mostra dei miei disegni, “Qui non ci sono bambini”, il destino dei più piccoli nei campi di sterminio era segnato: una volta arrivati venivano mandati alle camere a gas. Potevano salvarsi solo se apparivano più grandi della loro età o se mentivano, per essere inclusi tra gli adulti idonei al lavoro. E questa fu la mia fortuna, apparire più grande della mia età e venir destinato al mestiere di muratore. È questa circostanza che mi ha salvato la vita.

Come nacquero i suoi disegni, come li realizzò e a chi erano rivolti?
Io ero prigioniero nel campo di Buchenwald che venne liberato dai soldati americani l’11 aprile 1945. Ero in condizioni davvero estreme, malato e troppo malridotto per lasciare la mia baracca. Dovetti rimanere lì più di un mese per recuperare le forze. Fu proprio in quel periodo che eseguii i settantanove disegni a colori, tutti delle dimensioni di una cartolina. Con la mia visione di bambino volevo illustrare i vari aspetti della vita nel campo di concentramento. Testimoniare in particolare a mio padre che non era stato lì, ciò che avevo visto e vissuto, fermare per sempre il ricordo. Per realizzare i disegni utilizzavo il retro di alcuni moduli delle SS per le pratiche burocratiche, mentre gli acquerelli e i pastelli colorati mi vennero regalati da chi mi accudiva durante la convalescenza. 

Com’era la quotidianità della vita nei campi, e come è riuscito a sopravvivere?
La possibilità di un bambino come me di sopravvivere all’interno del Lager, alla fine è dovuta alla capacità di adattamento e di lavorare, a differenza di molti altri che non ce l’hanno fatta. Come ho cercato di descrivere nei miei disegni la sopravvivenza e la possibilità di non essere puniti dipendeva dalla buona impressione che si faceva sui capi. Così io mi dedicavo in modo indefesso ai compiti che mi venivano assegnati, cercando di non sentire la stanchezza di un lavoro duro come quello di muratore. Come si vede nei disegni che ho fatto, un altro tormento quotidiano era quello del cibo: trovare cibo era un’ossessione e la possibilità di recuperare qualcosa, anche fossero le bucce delle patate o del pane ammuffito, che magari qualcuno aveva nascosto, significava avere a disposizione qualche caloria in più e quindi avere qualche speranza in più di sopravvivere.

Sono passati 66 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e dall’esperienza della Shoah. Nel mondo di oggi c’è sufficiente consapevolezza di questa tragedia e volontà di trasmettere la memoria di ciò che lei e tanti altri hanno vissuto?
Credo valgano ancora le parole che ho detto nel 1995, all’inaugurazione della mostra dei miei disegni proprio a Buchenwald: grazie di essere disposti, tanti anni dopo, a compiere un viaggio a ritroso per contemplare questo lungo cammino. Ciò che vedrete è forse arte ingenua, pittura mediocre, una semplice illustrazione dei fatti, insomma, non so cosa sia. Ma vi prego, sostenete gli sforzi tesi a preservare la verità della storia, almeno per i prossimi cinquant’anni.

 

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