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Il mondo va veloce

Europa (e Italia)
E se il mondo non vi aspetta?

Le rivoluzioni nei paesi del nord Africa, la crescita impetuosa di Cina, India, Brasile e altre economie. Lo scenario mondiale cambia rapidamente. Siamo pronti per la sfida o abbiamo paura?

Anni a parlare dell’integralismo islamico dilagante. Poi, all’improvviso, proprio in paesi che dell’islam sono il cuore, senza che nessuno lo avesse previsto, l’esplosione di una domanda di riforme sociali e di democrazia. Milioni di persone, soprattutto giovani, in piazza per chiedere un futuro migliore. E questo non in nome della religione, ma "semplicemente" rivendicando il diritto di poter incidere sul proprio destino e di scegliersi i governanti. Così, in modo impressionante per la rapidità, regimi autoritari e corrotti, dove da decenni imperava lo stato d’emergenza, sono stati spazzati via (o comunque messi apertamente in discussione) dall’onda della pressione popolare.
Certo dall’Egitto alla Tunisia, dalla Libia alla Siria, dello Yemen al Quatar sono storie con diversità importanti, dove, purtroppo, non sempre la via pacifica ha prevalso. Non possiamo qui addentrarci tra queste diversità, analizzare nel dettaglio le differenze tra Tunisia ed Egitto (dove due regimi sono caduti a velocità impressionante) e i casi di Libia e Siria (dove i dittatori al potere hanno scelto la via delle armi e della repressione brutale).

Nord Africa, la storia in movimento
Ma quello che è importante cogliere è il dato generale di una realtà che ha proposto una inattesa accelerazione, proprio dove non si pensava dovesse accadere (cioè nel cuore del’islam). "Ho lasciato la Tunisia 50 anni fa – spiega l’economista francese Jean Paul Fitoussi – perché non era un paese libero. E quello che vuole la gente oggi è esattamente questo: la libertà. Siamo di fronte a una rivoluzione democratica paragonabile al 1989 in Europa, con la caduta del muro di Berlino. Certo alla rivendicazione sul piano delle riforme democratiche si è unita la questione della mancanza di lavoro, così la protesta borghese e giovanile si è saldata con quella degli strati più poveri della popolazione. E il fondamentalismo islamico, specie in Tunisia, non c’entra".
Una analisi confermata da Romano Prodi che, smessi i panni dell’uomo politico, è ritornato a rivestire quelli dell’appassionato economista, in giro tra Cina e Stati Uniti: "In piazza in nord Africa sono andati giovani istruiti ma disoccupati. Aiutati, nella loro protesta, dalla possibilità di utilizzare le moderne reti di informazione. Ma ricordiamo bene che il processo che si è aperto non ha esiti scontati. Ora noi parliamo molto della Libia per il conflitto militare che si è aperto. Ma sono molto preoccupato che non si parli più dell’Egitto (paese da 85 milioni di abitanti, contro i 7 della Libia ndr), dove il turismo è il 30% di quello dell’anno scorso e c’è stata una fuga di capitali al ritmo di mezzo miliardo di dollari al giorno. Perché, sia chiaro, se vogliamo che queste rivoluzioni abbiano un seguito positivo dobbiamo sostenerle. E credo che Europa e Usa abbiano il dovere e le risorse per far questo".
Una strada già imboccata da Obama che ha annunciato uno specifico piano di aiuti.
Perché è evidente che l’ondata che ha scosso i paesi del nord Africa è stata possente e non si è ancora esaurita. Ma gli approdi sono più che mai incerti. Sia in Egitto che in Tunisia è per ora l’esercito a garantire la transizione verso un qualcosa di ancora indefinito. La democrazia, abbiamo imparato che non si esporta, ma semmai si costruisce con processi complessi e faticosi, mettendo nel conto qualche scossone o passaggio critico.

Rivoluzioni dagli esiti incerti
Non a caso un grande giornalista che ha seguito le vicende di politica estera negli ultimi decenni, come Bernardo Valli ha scritto che "la rapidità, marchio della nostra epoca, ci ha intontiti, al punto da rallentare la nostra capacità di analisi. Gli odierni tempi mediatici, quelli dell’informazione quasi simultanea agli avvenimenti, ci fanno apparire un’eternità" quanto trascorso dall’inizio di questa ondata di rivolte popolari. "L’impazienza ci fa dimenticare che la democrazia è arrivata in non pochi paesi occidentali dopo una guerra mondiale di cinque anni e decine di milioni di morti". Detto questo, continua Valli, "le rivolte contro i raìs sono tutt’altro che concluse, la repressione in Siria è la prova di quanto la conquista araba delle libertà individuali sia incompiuta, e ancora carica di sangue. È una rivoluzione destinata a conoscere contro-rivoluzioni e restaurazioni".
Il richiamo al ruolo che Europa e occidente potrebbero e dovrebbero giocare rispetto a questi processi è un aspetto chiave. In Italia abbiamo per settimane solo pensato e parlato dell’ondata di profughi che poteva arrivare nel nostro paese. E il rischio è di misurare solo su questo l’opportunità di bombardare o meno la Libia e Gheddafi.
Ma lo sguardo deve essere un po’ più ampio. "La posta in gioco per l’europa è molto alta: se non aiuteremo noi il Maghreb – spiega Fitoussi – i soldi verranno dalla Cina e dalla monarchia saudita, con tanti saluti alla democrazia".
Ecco, il riferimento alla Cina (sempre più presente nell’economia africana) diventa il naturale legame con quell’altro enorme pezzo di mondo che si è messo in movimento in questi anni. E rispetto al quale Europa e ancor più l’Italia appaiono lontane, spaventate, ripiegate su sé stesse, come se, tener chiusa la porta per un po’, potesse un domani riconsegnarci la realtà com’era sino a qualche anno fa, con le nostre sicurezze e privilegi.

Gennaio 2016, la Cina prima economia al mondo
Ma così non potrà essere. Il Fondo monetario internazionale ha fissato per il primo gennaio del 2016 la data in cui la Cina diverrà la prima economia del mondo, superando gli Usa. La crisi finanziaria in cui siamo immersi da anni è una prerogativa occidentale che ha solo sfiorato quella che è la maggioranza della popolazione mondiale. Le economie emergenti dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina) rappresentano da sole il 42% degli abitanti del pianeta. Sono paesi con un basso debito pubblico e che stanno accumulando impressionanti riserve valutarie (quelle cinesi ammontano a quasi 2.000 miliardi di dollari, quelle russe a 400, 250 l’India, 190 il Brasile), mentre noi affondiamo nei debiti. E dietro ai Bric preme già una fascia di altri paesi (i cosiddetti Next 11) che vanno dall’Indonesia (240 milioni di abitanti) al Pakistan (175 milioni), dal Messico (112 milioni) al Vietnam (87 milioni). Insomma la grande maggioranza dell’umanità che è in movimento, lontana dalle crisi e dalle depressioni della vecchia Europa. Non a caso Jim O’Neil, economista della banca Goldman Sachs (e inventore del termine Bric) spiega che questi paesi "hanno trend demografici favorevoli, aumenti di produttività e di reddito e domanda domestica in rapida crescita".

I Bric al posto degli Usa
Da qui la convinzione di O’Neil che l’economia mondiale possa tranquillamente farcela "senza l’appoggio dei consumatori americani" (figuriamoci di quelli europei ndr), che potranno essere sostituiti proprio da quelli di questi paesi.
Intendiamoci, non che questo cancelli gli enormi problemi delle diseguaglianze e della povertà che in questi paesi continuano a essere presenti (vedi l’approfondimento nelle pagine precedenti). Ma è un dato di fatto che anche diversi paesi della poverissima Africa (come Tanzania, Etiopia, Uganda, Mozambico) segnano progressi impressionanti con tassi di crescita dell’8-10% all’anno.
"E sia chiaro – spiega Romano Prodi – che la competizione con molte realtà e con la Cina in particolare, non è già più sui costi, ma sulla qualità. Oggi in Cina pagano gli ingegneri più che a Milano. E ho già conosciuto nostre imprese che portano i loro ingegneri italiani in Cina. La rapidità dei cambiamenti è impressionante".

Europa, sconfiggere la paura
E se gli Usa (vedi l’intervista a Federico Rampini in queste pagine) possono almeno contare sulla figura di Obama, ancor più complicate le cose sono per l’Europa e l’Italia, dove le spinte alla chiusura sono sempre più forti. "Vedendo la dinamicità che c’è in tanti paesi e poi tornando in Italia si resta impressionati – commenta Romano Prodi – Siamo dominati dalla paura, che è ancor peggio della sfiducia. Se scegliamo di rincorrere le paure che messaggio consegniamo ai giovani? La chiave di oggi è avere coraggio, affrontare le sfide con spirito positivo, puntare sulla formazione e sull’istruzione. Altrimenti viene in mente un vecchio proverbio calabrese che dice: chi pecora si fa, il lupo se lo mangia".



Dario Guidi

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