Salute e Bellezza

Per una fisicità senza stereotipi

Disegno di donna

Nessuno direbbe che la Venere di Milo è brutta, ma pochi, pochissimi definirebbero bello un corpo imperfetto. È uno dei pochi punti fermi che, ci dicono le neuroscienze, si lega a come funziona il nostro cervello. 

Eppure l’imperfezione rappresenta la regola in natura e i nostri corpi – pur lontani anni luce da quelli dei bronzi di Riace o dalle misure sinuose di una Marilyn Monroe –, hanno molto più da raccontare di una statua simbolo della storia dell’arte o di una icona del cinema: sono vivi, reali, concreti, unici, quotidiani, involucri con un cuore che batte e un’anima che li plasma. E sono belli, se li sappiamo guardare liberandoci da modelli e stereotipi che li imbrigliano. 

Di “spogliarsi dagli stereotipi” parla anche Coop, che accompagna il lancio del suo nuovo intimo a marchio di qualità, comodo e funzionale, con taglie XXL e senza paura della diversità dei corpi –, legato alla campagna “Close the gap” per la parità di genere, facendo proprie le idee del “Body positivity”, il movimento che propugna lo stare bene con se stessi, a partire dall’unicità del proprio fisico.

Sì, perché gli stessi standard estetici sono cambiati più volte nel corso del tempo: basti pensare alle figure armoniose della classicità, alle rotondità abbondanti del Rinascimento e poi al “beauty marketing” dei nostri tempi. Oggi, complice anche l’avvento dei social media, gli standard sono divenuti irrealistici, gabbie entro le quali cerchiamo di stare con l‘aiuto di fotoritocchi e sull’onda di un narcisismo imperante e omologante. 

Le donne sono le maggiori vittime di questi modelli culturali che attualmente propongono una magrezza “tonica” idealizzata in tutte le salse. Moda, cinema, tv, web e pubblicità sono grandi palcoscenici virtuali per piccole ambizioni (e frustrazioni) reali, e la vita un confronto continuo di muscoli, rifacimenti e imperfezioni.

Ma tutti i corpi sono belli. A questa deriva del “bel fisico da esibire a tutti i costi” cerca di porre argine il movimento sociale e politico del “Body positivity”, che affonda le radici negli anni Sessanta del Novecento ed è stato rilanciato, nel secondo decennio di questo secolo – ironia della sorte –, proprio su Instagram, il social più “patinato” di tutti. Dietro ci sono operazioni anche di marketing aziendale che non hanno messo al riparo da critiche chi ha utilizzato modelle curvy poco rappresentative, è stato detto, della varietà delle forme dei corpi umani. 

L’invito “positive” più genuino è, invece, a godersi il fisico così com’è, ad accettarlo e ad amarsi perché “tutti i corpi sono belli”: non esistono misure predefinite per la felicità davanti a uno specchio. Vanno bene anche i difetti. «E non dimentichiamoci di una cosa – aggiunge Andrea Notarnicola, direttore del Comitato Global Inclusion, che collabora con Coop sul tema della diversità, dell’equità e dell’inclusione per rendere anche il prodotto un canale di comunicazione – che il corpo cambia per chiunque nel corso della vita, vuoi per il passare degli anni, vuoi quando attraversiamo periodi di malattia o di particolari trasformazioni fisiche. Credere che la nostra identità passi unicamente dal corpo e dalla sua immagine è rischioso».  

Alti costi da evitare. Il costo da pagare può essere molto alto. Può portare all’anoressia e ad altri disturbi alimentari, all’autolesionismo o alla depressione, tutte forme patologiche in crescita fra le nuove generazioni. In questi casi è la cattiva “immagine corporea” che ci siamo creati o che mutuiamo dal contesto sociale a farci sentire inadatti, trasformando una semplice percezione in un disagio reale, una disfunzionalità o una malattia vera e propria.

Parallelamente, c’è un’altra domanda che molti si pongono: è sufficiente accrescere l’autostima per stare bene nei propri panni, o non èPrendi nota meglio provare a modificarlo, il corpo, per ragioni di salute – perdendo chili, ad esempio – o per migliorare stili di vita o prestazioni sportive? Tutto ciò, dicono gli esperti, impatta sulla salute fisica e su quella mentale, che si raggiunge mantenendo un buon aspetto esteriore (o lavorando per ottenerlo) e prendendoci cura di noi stessi, ma in maniera integrale, senza inseguire falsi miti e cadere in preda ai sensi di colpa se poi non li raggiungiamo. 

«Migliorare la nostra forma fisica va bene – osserva Notarnicola, il cui comitato lavora con associazioni, imprese e università per la realizzazione dell’articolo 3 della Costituzione che promuove il principio di equità – ma identificando obiettivi sempre personali e raggiungibili. Sul packaging del prodotto Coop lanciamo una serie di messaggi in cui si cerca di spiegare tutto ciò e come possa essere violento, amplificato dai social, il “Body shaming”, cioè la denigrazione delle persone in base a peso, statura o colore della pelle. Se non si è “instagrammabili”, oggi, sembra che non si abbia valore. Ma non è così». Un’altra cultura può nascere anche tra le corsie di un supermercato. 

Più libertà, insomma, contro la “Body negativity”, la derisione dei corpi praticata dagli hater sfruttando la protezione di uno schermo: dal caso di qualche anno fa di Vanessa Incontrada, a quello più recente del nudo appena abbozzato di Florence Pugh nel nel film “Oppenheimer”, che le è valso comunque attacchi per la “troppa pancia” Stereotipi messi in scena e demoliti, invece, da un’artista e coreografa italiana, Silvia Gribaudi, che danza provocatoriamente in biancheria intima unendo poesia e ironia.

Ti sta bene, ti far star bene. Al lancio della sua nuova linea di biancheria intima, Coop associa messaggi di varia natura sulle confezioni e sugli espositori, tra cui “Ti sta bene, ti fa sentire bene”: a prescindere da peso, taglia, forme, l’importante è piacersi così come siamo. L’intimo presenta perciò capi pensati per chi è in sovrappeso ma anche per chi è magro o piatto, poiché benessere e autostima non devono essere schiavi di idee fisse di cui, recita il concept, bisogna spogliarsi. 

«Mentre moda e abbigliamento sono impegnati a trasmettere un’immagine di sé da copertina, noi abbiamo preferito concentrarci sul fatto che ogni capo proposto debba far sentire a proprio agio chi lo indossa. E non è escluso che venire in un negozio Coop, dove si è liberi di sceglierlo senza farsi assistere da un commesso come negli store specializzati, sia di aiuto a chi vive il proprio corpo con disagio nel chiedere una taglia forte o nell’andare in camerino a provarlo». 

Concorda su questa lettura Luisa Pilo, formatrice di Scuola Coop impegnata nella realizzazione di un evento rivolto a quadri e dipendenti delle cooperative di consumatori, per sensibilizzarli su “Close the gap” e su questa operazione, che è legata non soltanto al lancio del nuovo intimo, ma al ruolo culturale di chi opera nei punti vendita.

Quanto peso o quanto pensi? II rilancio del tessile diventa, per Coop, occasione per toccare argomenti e valori sensibili, di grande rilevanza e attualità. Notarnicola, che ha studiato con la sua società, la Newton, la connessione tra immagine e discriminazione di genere, sottolinea che «Coop è stato uno dei primi attori ad aver intercettato questo tema, di cui poco si parla, in rapporto ai luoghi di lavoro. Opponendosi, per esempio, alla grassofobia che spinge tante aziende a non assumere personale con qualche chilo in più, come se fossero interessate più a quanto le persone pesano che a quanto pensano. 

Per le donne, la questione dell’immagine diventa critica: nell’inconscio collettivo è presente l’idea che oltre alla competenza spesso venga richiesto loro un contributo estetico dalle organizzazioni, sottolineato nel linguaggio da commenti o giudizi non richiesti sul corpo femminile che non riguardano invece gli uomini».

Nel processo di trasformazione delle imprese, chiamate a una maggiore responsabilità sociale su tanti punti, non sono soltanto il colore della pelle o l’identità di genere a creare delle barriere, ma anche altri aspetti che toccano, trasversalmente, la vita e le esperienze delle persone. È questo il senso pieno della parola “inclusività” che, accanto a “sostenibilità”, guida le scelte di Coop, a partire dai fornitori e dalle linee di prodotto che troviamo poi sugli scaffali. Anche di quelle più intime. 

Tag: intimo, prodotti a marchio, close the gap, stereotipi di genere

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