Sul tema dell’emergenza coronavirus e delle difficoltà generate dalle condizioni della sanità pubblica abbiamo intervistato il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini.
Alla luce dell’emergenza vissuta in queste settimane cosa deve cambiare nell’approccio complessivo al tema del governo del Servizio sanitario nazionale? Ho sentito da più parti chiedere il ritorno della sanità in capo allo Stato. Viceversa, se in Emilia-Romagna abbiamo retto in questi due mesi, soprattutto nel momento di picco dell’emergenza sanitaria da coronavirus, lo dobbiamo proprio alla sanità che qui abbiamo creato in 40 anni, a forte valenza pubblica, e a chi ci lavora, che non ringrazieremo mai abbastanza. Per questo ho difeso l’autonomia delle Regioni e non intendo arretrare di un passo. E qui i primi a protestare per un ritorno alla gestione nazionale della sanità regionale sarebbero i cittadini. Più che di rapporti istituzionali, è un problema di come si ricopre il ruolo al quale siamo chiamati. Dopodiché se ne esce insieme, come sistema Paese, con misure di respiro nazionale, collaborando al di là dei confini geografici e dei colori politici.
C’è un tema centrale che è quello delle risorse da destinare alla sanità pubblica: sono da aumentare e dove prenderle? Questa è una delle principali lezioni che questa crisi ci consegna: bisogna investire tantissimo sul sistema sanitario pubblico, che cura tutti senza chiedere da dove vieni o quanti soldi hai in tasca. In Emilia-Romagna continueremo a farlo. Ora la priorità è sconfiggere il virus: non basta rallentarlo, va fermato. Tutti i nostri sforzi vanno concentrati in questa lotta. Nell’attesa di un vaccino, dovremo rivedere gran parte del nostro modello sociale ed economico e serviranno risorse straordinarie. Come ha detto Mario Draghi, andrà speso tutto ciò che sarà necessario, senza limiti contabili o di bilancio, e l’Europa su questo deve battere un segnale forte. Per questo ci penserei molto bene prima di rinunciare a 36 miliardi di euro messi a disposizione col meccanismo europeo Mes, senza alcuna condizione sulla restituzione, col solo vincolo di usarli per potenziare il nostro sistema sanitario pubblico nazionale. Apprezzo in ogni caso che quest’anno nell’accordo fatto dalle Regioni con il governo si sia aumentato di ben 4 miliardi il fondo per la sanità pubblica, che non succedeva da parecchi anni. Bisogna proseguire su questa strada.
Nel rapporto Regioni-governo centrale va bene l’impianto attuale o serve un maggiore coordinamento delle politiche e degli interventi? Fin dal primo momento ho cercato di lavorare per favorire la massima coesione tra il governo e le Regioni, anche in virtù del mio ruolo di presidente della Conferenza Stato-Regioni. Non è solo una questione di forma: viviamo un’emergenza senza precedenti e chi ne approfitta per polemiche da teatrino della politica mi fa solo pena. Col governo c’è stato un confronto a volte franco, ma sempre all’insegna dell’ascolto e se ci sono stati degli errori, non dimentichiamoci che nessuno era preparato per vivere questa crisi. C’è un aspetto che credo sia sotto gli occhi di tutti: l’esperienza di chi conosce e opera sul territorio è un valore aggiunto. Cito un esempio emiliano, ma altri se ne potrebbero fare per altre regioni: chi avrebbe dovuto prendere tempestivamente ordinanze come quella di chiudere Medicina o quelle con misure ancora più restrittive per le province di Piacenza e Rimini se non il presidente della Regione, d’intesa coi sindaci e i prefetti? Cioè chi meglio conosceva la situazione nelle realtà locali.
Cosa deve cambiare nell’evoluzione del rapporto con la sanità privata rispetto all’andamento degli ultimi anni? Solo qualche mese fa, in campagna elettorale, c’era chi proponeva un modello diverso di sanità, sostenendone la privatizzazione in dosi massicce. Ero convinto dell’opposto allora e lo sono ancora di più oggi. Senza per questo mettere in discussione una collaborazione che anche stavolta si è dimostrata efficace. I privati convenzionati, che ringrazio per la grande disponibilità, hanno accettato di rinviare ogni attività non urgente dedicandosi alla gestione dell’emergenza, come avveniva nel pubblico, mettendo a disposizione posti letto per i reparti Covid, le terapie intensive e la quarantena in sicurezza. Li abbiamo incontrati, hanno capito la situazione e hanno fatto ciò che serviva. Un tipo di rapporto, a forte valenza pubblica, che contribuisce a rendere ancor più un’eccellenza la nostra sanità.
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Si bene, ma chiediamoci quali sono state le ragioni del fallimento della riforma del 1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale ( tra le quali la gestione politica delle USL). E chiediamoci anche perché il settore sanitario italiano è quello in cui si riscontrano livelli preoccupanti di corruzione, spreco e inefficienza, al punto di essere al centro dell’attenzione dell’Anac , dell’Antimafia nazionale e da meritare, dal 2016 al 2018, la creazione del progetto “Curiamo la corruzione”.
Nel 2019 il presidente della Commissione parlamentare antimafia affermava: “la spesa sanitaria è esplosa con la riforma del titolo V della Costituzione, con la quale siamo passati a 21 greppie in cui mangiare. La salute degli italiani è diventata un limone da spremere. E il business della malattia è diventato maggiore di quello per la prevenzione ed è una cosa che mina alle basi la democrazia”. (https://www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.php?articolo_id=72381)