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Cervello in forma? Con un buon sonno!

un'immagine di benessere mentale

Dormiamo meno, dormiamo male e, come se non bastassero stress, smartphone accesi h24 e stili di vita sbagliati, a peggiorare le cose ci si è messa anche la pandemia, con il suo carico di ansia, paure  e notti insonni. Eppure, mai come oggi si è scoperta l’importanza di riposare bene. Non si tratta solo di “ricaricare” il nostro organismo: negli ultimi anni numerose ricerche hanno evidenziato che un buon sonno ci aiuta a mantenere in forma il cervello e a prevenire malattie neurodegenerative come le demenze e l’Alzheimer. A confermarlo è Biancamaria Guarnieri, neurologa, responsabile della commissione nazionale “Sonno e malattie neurodegenerative” dell’Associazione italiana medicina del sonno e responsabile del Centro di medicina del sonno nella casa di cura Villa Serena di Città Sant’Angelo (Pe). Guarnieri è anche socia di Airalzh, con la quale segue il progetto di ricerca sostenuto da Coop.

«Negli ultimi tempi l’approccio della medicina è cambiato nei confronti di questa materia, e se fino a 20-30 anni fa ci si limitava a constatare che i disturbi del sonno accompagnavano le persone affette da demenza, col tempo si è capito che il processo è inverso: un cattivo riposo può influire sui meccanismi neuropatologici che possono portare alle demenze, in particolare alla malattia di Alzheimer».

Studi condotti prima sugli animali e poi sull’uomo hanno infatti evidenziato che un buon sonno notturno facilita l’eliminazione di proteine come beta amiloide, tau e sinucleina, considerate responsabili di diverse forme di decadimento cognitivo. L’alterazione del ritmo sonno-veglia, al contrario, favorisce il loro accumulo, che ha una funzione “tossica” per il sistema nervoso centrale.

Prendersi cura del riposo La parola d’ordine è quindi prevenzione, che in questo caso significa prendersi cura del proprio sonno. «Tutti noi dovremmo farlo, e invece sottovalutiamo questo aspetto. Dopo notti insonni preferiamo dire “recupero domani”, anche se sappiamo che non sempre è possibile. Inoltre siamo condizionati dal luogo comune che dopo una certa età la qualità del sonno decada inevitabilmente, mentre si può migliorare».

«Anni di studi ci hanno ormai confermato che un sonno disturbato, o un’eccessiva sonnolenza diurna sono segnali da non sottovalutare  – continua l’esperta – .  All’origine possono esserci  i ritmi di vita e lo stress, e a volte è sufficiente modificare le abitudini. Ma altre volte sono il sintomo di disturbi primari che vanno ricercati e affrontati, come appunto apnee notturne, sindrome delle gambe senza riposo, parasonnie come il cosiddetto disturbo del comportamento del sonno REM. Sono problemi che vanno investigati e affrontati con le giuste terapie».

Una recente review firmata dalla dottoressa Guarnieri con altri colleghi, mostra per esempio come proprio le apnee ostruttive del sonno, un disturbo che si stima possa raggiungere il 40% nella popolazione maschile e il 20% in quella femminile dalla mezza età in poi, possano contribuire al declino cognitivo.

Dove va la ricerca Non è un caso che la ricerca su Alzheimer e demenze stia puntando a indagare sui fattori di rischio e sui segnali precoci della malattia, inclusa la sfera del sonno. «Ci stiamo rivolgendo a due settori – spiega Alessandra Mocali, presidente di Airalzh, associazione che promuove la ricerca medico-scientifica sull’Alzheimer -. Quello della diagnosi precoce e di precisione, perché le terapie hanno la possibilità di essere efficaci se utilizzate agli esordi della malattia, ed è altrettanto importante diagnosticare in modo preciso e distintivo i vari tipi di demenze perché gli interventi terapeutici specifici abbiano affetto. E quello della prevenzione. Si è scoperto per esempio che ridurre i fattori di rischio che sono all’origine delle malattie cardiovascolari può posticipare anche l’insorgenza dell’Alzheimer. Non dobbiamo dimenticare anche ritardare di un anno o due l’esordio di una malattia come questa significa regalare qualità della vita ai malati e alle loro famiglie, e sollevarli da costi e carichi enormi».

Sui disturbi e sulla correlazione tra sonno e demenze si inserisce anche il progetto di ricerca finanziato da Coop. A portarlo avanti è la giovane ricercatrice Ilde Pieroni, sotto la guida della dottoressa Guarnieri. Pieroni sta approfondendo la relazione tra alcuni disturbi del sonno e le diverse forme di demenza, con un’attenzione particolare alle differenze tra uomo e donna. Sotto la lente c’è il Disturbo del comportamento del sonno REM (RBD), che insorge in genere dopo i 50 anni. «I pazienti colpiti da RBD fanno sogni dal contenuto aggressivo, in cui parlano animatamente, lottano, litigano, ma soprattutto “agiscono” mentre dormono. Il disturbo può arrivare a colpire il 2% della popolazione sopra i 60 anni ed è considerato un sintomo preclinico di alcune malattie degenerative, tra cui la demenza a corpi di Lewy, molto invalidante. Chi lo presenta ha un rischio molto più alto di sviluppare la malattia nei 20 anni successivi», sottolinea Pieroni.

Arrivare a diagnosticare velocemente e correttamente il disturbo, uno degli obiettivi dello studio, è un passo in più verso la prevenzione e il trattamento in fase precoce. E non solo. Individuare l’RDB nelle persone con rischio cognitivo aiuta a fare una diagnosi differenziale tra Alzheimer e Morbo di Lewy e a intervenire con terapie personalizzate.

Lui e lei, diversi anche nel sonno Ma c’è un altro obiettivo non meno importante che si pongono le ricerche avviate con il contributo di Coop, e cioè comprendere le differenze con cui questo e altri disturbi del sonno si presentano nell’uomo e nella donna, un territorio ancora poco esplorato. «I dati ci dicono che l’accesso delle donne ai centri di medicina del sonno è di gran lunga inferiore rispetto a quello degli uomini –  spiega Guarnieri – perché spesso i disturbi di questo tipo si presentano nel sesso femminile in forma atipica. Prendiamo il caso delle apnee del sonno: un uomo che ne soffre manifesta sintomi sintomi tipici quali russamento, sonnolenza diurna eccessiva, apnee testimoniate. Una donna può riferire invece incubi, cefalea, depressione del tono dell’umore: segnali atipici che possono causare un ritardo delle diagnosi. Questo la porta a convivere con disturbi del sonno rischiosi per più tempo».

Eppure, proprio le donne dovrebbero porre su questi temi un’attenzione ancora maggiore: «C’è un lungo periodo che va dalla premenopausa alla post menopausa, in cui l’organismo subisce cambiamenti importanti, e si rileva un’altissima prevalenza dei disturbi del sonno. Un dato da non sottovalutare, anche alla luce del fatto che nel sesso femminile il declino cognitivo è più veloce. Nella malattia di Alzheimer le pazienti donne sono circa due terzi del totale, questo ci deve spingere a proseguire le ricerche in questa direzione».

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