«Il perseguimento, anche delle migliori cose, dovrebbe essere calmo e tranquillo». (Cicerone)
Ogni inizio d’anno coincide con una serie di riti che coinvolgono tutti, anche quelli che ai riti non ci credono e magari a Capodanno vanno a letto alle 22 e 30 perché festeggiare gli mette tristezza o perché vogliono fare gli originali. Tutti hanno diritto di cittadinanza e dunque cominciamo con l’augurare un felice anno nuovo sia a quelli che hanno brindato a cotechino e lenticchie sia a quelli che si sono fatti una tisana e si sono messi i tappi nelle orecchie per non sentire i botti. Liste bruciate nel caminetto, previsioni astrologiche, buoni propositi delle cose da fare o sulle quali tirare una riga e mai più. Ognuno parte con il piede che ha scelto o con quello che gli capita.
Al rientro a scuola, nella primaria che frequenta mio figlio, ai bimbi è stata data da imparare la filastrocca di Gianni Rodari “Capodanno”, che dice così: Filastrocca di Capodanno/ fammi gli auguri per tutto l’anno:/voglio un gennaio col sole d’aprile, un luglio fresco, un marzo gentile;/voglio un giorno senza sera,/voglio un mare senza bufera;/voglio un pane sempre fresco, sul cipresso il fiore del pesco;/che siano amici il gatto e il cane,/che diano latte le fontane./Se voglio troppo, non darmi niente,/dammi una faccia allegra solamente.” E poi è stato chiesto ai bambini di scrivere il loro desiderio per l’anno nuovo. Momento di suspance mentre il bambino scriveva, perché intanto pensavo a cosa avrei risposto io e tutte le richieste che mi venivano in mente erano fuori portata, esagerate e anche di molto astratte.
Poi ho sbirciato il foglio e, in perfetta sintonia con il testo di Rodari, c’era scritto: “Che stiamo tutti bene e tranquillamente.” Poca roba? Per una come me, che la tranquillità l’ha sempre considerata l’anticamera della morte, forse. Ho riflettuto a lungo su questa “modesta richiesta” e sulla sua involontaria saggezza, come un Seneca in fasce (lo avete mai letto il De Tranquillitate animi? È un libro del filosofo latino Lucio Anneo Seneca, foto sopra). La tranquillità, nel contesto in cui viviamo, mi sembra che sia una delle qualità meno apprezzate da noi che ci affanniamo a fare ma soprattutto a far vedere (o a far credere) agli altri che abbiamo fatto. Forse ci sembra una condizione inadeguata alle pressanti richieste del mondo: tutto è emergenza, disastri, cose che non funzionano e che dovrebbero essere riformate, come potremmo mai essere tranquilli e soprattutto, la nostra tranquillità non potrebbe forse apparire una scusa per lavarsene le mani di tutto e lasciare che sia qualcun altro a sporcarsi le mani?
Seneca parla proprio, in questo suo libro, del conflitto tra vita attiva (intendendo con questo anche la partecipazione politica) e vita contemplativa e lo risolve consigliando al suo interlocutore periodi alterni in cui dare più spazio all’una o all’altro, a seconda delle contingenze, del momento storico e della disposizione personale. Coltivare la tranquillità non significa affatto ritirarsi completamente da ciò che ci accade intorno, ma saper ritrovare dentro di noi un equilibrio che ci permetta di agire in maniera equilibrata quando la nostra azione è richiesta e soprattutto nelle modalità in cui possiamo dare il nostro meglio. Ogni azione è anche un carattere e viceversa. Recuperare la tranquillità dell’animo è anche un modo per fronteggiare la marea di notizie e di input che ci vogliono costantemente coinvolti e in allerta senza che il nostro coinvolgimento e la nostra allerta siano però motore di alcun concreto cambiamento. Allora, dalla tranquillità, forse l’azione giusta ci apparirà con maggior chiarezza e sapremo farla con una faccia allegra.