Atto primo, scena XV della “Cenerentola” di Gioachino Rossini, messa in musica su un testo di Jacopo Ferretti. Attorno alla tavola imbandita si ritrovano i protagonisti principali del “dramma giocoso”: Don Magnifico, nobile decaduto che vorrebbe far sposare una delle sue figlie al principe di Salerno Don Ramiro; Ramiro stesso, che fin dall’inizio dell’opera si è travestito da scudiero per meglio sondare i sentimenti di Magnifico e delle sue figlie; la serva Cenerentola, di cui Ramiro è innamorato e che ovviamente finirà per sposarlo; Dandini, cameriere di Don Ramiro, a cui il principe ha chiesto di prendere il suo posto, fingendosi il principe mentre lui osserva da lontano. Di fronte ai cibi abbondanti portati in tavola, Dandini commenta fra sé e sé: “Oggi che fo da principe, per quattro vo’ mangiar”.

Siamo nel 1817, anno di prima rappresentazione dell’opera a Roma. Il testo serve a divertire, come fa divertire noi duecento anni dopo. Ma quello che a noi oggi sfugge è che quell’idea, all’epoca, non era solo comica. Essa aveva anche ben precisi riferimenti politici e ideologici. Fin dal Medioevo, infatti, la quantità del cibo era percepita come attributo del potere. Dapprima era stata una sorta di obbligo sociale: all’epoca di Carlo Magno mangiare molto era un segno di forza e di robustezza fisica, una qualità ritenuta indispensabile all’esercizio della guerra e del comando. Se un signore era di scarso appetito, non era considerato degno di regnare. Con il passare dei secoli, il rapporto fra quantità di cibo e dignità sociale prese a invertirsi, configurandosi non più come dovere ma piuttosto come diritto. Il paradigma non era più che la capacità di mangiare giustifica il potere, ma che, al contrario, il potere giustifica l’abbondanza di cibo sulla propria tavola.

Nei cerimoniali di corte del tardo Medioevo e del Rinascimento, la quantità di cibo che deve essere presentata nelle singole tavole è stabilita in modo addirittura aritmetico, a seconda della dignità e del grado del commensale. Per esempio, alla corte di Pietro III d’Aragona (1344) nel vassoio del re era previsto che fossero servite vivande per otto persone; cibo per sei era servito nel vassoio dei principi reali, degli arcivescovi, dei vescovi; cibo per quattro nei vassoi degli altri prelati e cavalieri che sedevano al banchetto del re. Disposizioni di questo genere durarono a lungo in Europa. Il cerimoniale di corte dei Borbone, a Napoli, le prevede ancora nell’Ottocento. L’epoca in cui Ferretti scrive il libretto per Rossini.

Tutto questo per dire che la frase di Dandini non va presa come una semplice battuta, poiché rimanda a un immaginario assai radicato nella società del tempo. A una vera e propria ideologia alimentare. Chi è più in alto nella scala sociale, ha diritto a mangiare di più.

Tag: Rossini, pranzo da re, potere

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