Dici tortellino e pensi a Bologna, o a Modena. Poi capita che ti trovi a Baku, la capitale dell’Azerbaigian, sulla riva occidentale del Mar Caspio, e scopri che il tortellino è una tipica tradizione locale. Lo chiamano “duschbere”, la sua forma è esattamente quella del tortellino. Lo fanno molto piccolo, come piace ai puristi bolognesi: nelle famiglie azere sono i bambini a occuparsi della chiusura della pasta, con le loro piccole dita. Il ripieno è diverso: il maiale (che da queste parti per motivi religiosi non si mangia) lascia il posto all’agnello; cipolla, sale e pepe lo insaporiscono. La sfoglia si impasta con 80 grammi di farina per ogni uovo. Si serve nel brodo di cottura, che solitamente si fa con gli ossi.
Ho appreso la notizia da un blog di Stefano Bugamelli, e ho ripensato a un’esperienza di quelle indimenticabili, fatta anni fa in Ungheria. Al Museo della civiltà contadina di S. Andrea, presso Budapest, fra gli artigiani che illustrano saperi e tecniche tradizionali, vedo un’anziana signora con un piatto di garganelli. La forma di pasta tipica della mia città, Imola, e della campagna che da qui raggiunge Lugo. Un maccherone fatto a mano, ripiegando un quadratino di pasta su un bastoncino, poi chiudendolo e “rigandolo” su un pettine di telaio. Preso da un sussulto di eccitazione, chiedo notizie alla sfoglina ungherese. Mi spiega che da loro si chiamano “chiocciole” e sono un tipo di pasta tradizionale della regione di Debrecen. Che si consumano in brodo. Che sono un piatto festivo legato alle cerimonie di fidanzamento.
Come si fanno? chiedo. Estrae da un cassetto i due oggetti-chiave: un bastoncino e un pezzo di pettine di telaio. Quest’ultimo, identico a quelli che si usano in Romagna. Il bastoncino invece è più curato, quasi un oggetto d’arte. È in metallo, ma la signora mi spiega che un tempo si faceva di canna, o di legno, talvolta di terracotta o di ceramica. In ogni caso era immancabile nel corredo femminile, spesso un regalo di fidanzamento. Tanti erano dipinti e decorati con le iniziali di famiglia. In occasione delle feste di fidanzamento, le donne del paese si riunivano nella casa della promessa sposa e ciascuna di loro portava con sé il suo bastoncino, assieme alla farina e alle uova da lavorare. Tutte insieme preparavano la pasta e facevano le chiocciole (cioè i garganelli). La sera arrivavano gli uomini, si cenava, si cantava e si ballava fino all’alba e alla fine si diceva: «Abbiamo pestato la coda alla chiocciola».
Queste storie – e chissà quante altre – sembrano fatte apposta per mostrarci che esistono legami, rapporti, affinità tra culture lontane, apparentemente estranee. Che rivendicare la purezza delle proprie radici è una scelta ottusa e sterile. Che ogni identità si è costruita entro circuiti di scambio talora oscuri e misteriosi. Che sarebbe bello studiarli, con curiosità e mente aperta. Le vie del cibo sono infinite.