Settant’anni fa arrivarono i piatti di plastica, oggi siamo arrivati alla plastica nel piatto! Con la diffusione dei materiali plastici usa e getta – soprattutto imballaggi – e con le fibre sintetiche derivate dal petrolio – poliestere e nylon – con le quali confezioniamo abiti, tessuti e un’enormità di oggetti domestici e industriali, abbiamo riempito l’ambiente di residui non biodegradabili in grado di intossicare la vita e la nostra salute.
Dal 1950 a oggi sono stati prodotti oltre otto miliardi di tonnellate di plastica e buona parte di questa è andata dispersa nell’ambiente, in mancanza di sistemi di raccolta e di riciclo. La plastica è versatile, leggera, igienica e a basso costo. Però – come scrisse Primo Levi, che era un chimico – “è un po’ troppo incorruttibile”, così ce la ritroviamo accumulata nei mari e nei suoli. Dopo un po’ di tempo, sotto l’azione della luce solare, tende a frammentarsi in particelle sempre più piccole e invisibili, che si diffondono ovunque ed entrano nella catena alimentare: le microplastiche sono state trovate nella pioggia, nella neve delle zone artiche e sui ghiacciai alpini e ovviamente nelle acque oceaniche, nei pesci, negli uccelli.
Si stima che in Europa ogni anno entrino nell’ambiente marino tra le 200 mila e le 500 mila tonnellate di fibre microplastiche da tessuti. Quando le mangiamo insieme al cibo, trasportano nel nostro corpo sostanze tossiche come i bisfenoli, gli ftalati e altri additivi. Se per la plastica degli imballaggi la soluzione sta nella riduzione del suo uso e nella scrupolosa raccolta differenziata, per le microfibre che si liberano dai nostri abiti, collant, abbigliamento sportivo, tende, lenzuola e tappeti in materiali sintetici, è tutto più difficile, in quanto non le vediamo.
I filtri delle lavatrici hanno maglie troppo larghe, attraverso le quali ne sfugge la maggior parte, e anche certi nuovi sacchetti-filtro entro i quali si mettono i capi sintetici destinati al lavaggio, pur essendo a maglie più fini, non sono ancora in grado di trattenere tutte le particelle. Si limitano a intercettare quelle più grandi, visibili anche a occhio nudo, che poi si asportano a mano per smaltirle nei rifiuti.
Per tentare di ridurre la dispersione delle microplastiche nelle acque di lavaggio abbiamo poche possibilità: prediligere capi in fibre naturali biodegradabili, fare lavaggi un po’ meno frequenti, non utilizzare la centrifuga ad elevate velocità. Ma è chiaro che la soluzione a questo ennesimo problema ambientale va trovata a monte e a valle dell’utente dei tessuti e degli abiti: in fase di concezione delle fibre sintetiche, al fine di limitare la formazione di microframmenti o renderli biodegradabili, e in fase di depurazione delle acque reflue, con nuove tecnologie di separazione di questi residui subdoli e ancora non normati dalla legge.
Intanto l’Agenzia Europea per l’Ambiente (Eea) ha da poco pubblicato lo studio “Plastic in textiles: towards a circular economy for synthetic textiles in Europe”, che analizza l’impatto ambientale dei tessuti sintetici e propone alcune vie da seguire per ridurli, in un’ottica di economia circolare. Un primo passo.

Tag: tessuti, fibre sintetiche, lavatrice, plastica

Condividi su

Lascia un commento

Dicci la tua! Scrivi nello spazio qui sotto cosa pensi dell’articolo, la tua opinione è importante per noi.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.
Devi accettare i termini per procedere

Iscriviti alla
newsletter

di Consumatori

Ricevi ogni mese via mail la rivista digitale e le notizie più interessanti