Come sempre, insieme con l’autunno, arrivano le vittime di frane e alluvioni e notizie di dissesto dalle solite parti d’Italia. Essere geologi in questo paese non è solo scomodo, ma rischia di diventare antipatico e ripetitivo, quasi noioso: una litania messa in opera a ogni tragedia. Ma la realtà è sempre quella e i cinquant’anni passati dalla terribile frana del Vajont sembrano essere passati invano. Proviamo a ricominciare da lì.
L’Italia del boom economico paga un prezzo di vite umane e disastri terrificante quando una frana di dimensioni colossali (270 milioni di metri cubi) precipita nel bacino artificiale formato dalla diga sul torrente Vajont. L’ondata che ne consegue spazza via il paese di Longarone e uccide 2.000 abitanti non lasciando nemmeno un cumulo di macerie: l’acqua livella tutto e i corpi vengono ritrovati stratificati insieme con le rocce del fondovalle. Ma questa è la regola del nostro paese: ingegneri molto abili che però non tengono conto del contesto geologico, opere stupefacenti la cui utilità è spesso dubbia, cittadini poco informati che subiscono decisioni sui propri territori senza poter né incidere, né conoscere, politica al servizio di interessi particolari invece che del bene comune. Da quella che è la tragedia più grave di tutte non si esce nemmeno all’inizio del terzo millennio: i dati resi disponibili dal Cnr-Irpi a riguardo non sono da nazione civile.
Eppure siamo ancora qui a chiederci come sia possibile che i fiumi delle città italiane siano tutti tombati sotto i palazzi e le strade, e a dichiarare il nostro stupore per le alluvioni che si ripetono negli stessi posti con regolarità disarmante. E potremmo prevederlo anche ora: nuove alluvioni e frane nel messinese, in tutta la regione Calabria, in Campania, in Trentino, nell’alto Lazio, in Liguria, nel Veneto. Nel caso del Vajont, erano anni che crepe e smottamenti venivano segnalati dai geologi (tra questi il figlio del progettista della diga) al punto da consigliare di non impegnare l’invaso, poi comunque riempito. Oltre ai geologi, anche qualcun’altro se ne era accorto: non un amministratore, né tantomeno un ingegnere, ma Tina Merlin, giornalista de “l’Unità”, che era stata già processata per diffusione di notizie tendenziose e turbativa dell’ordine pubblico. Non è cambiato molto da quella notte lontana, l’Italia è ancora il paese delle catastrofi prevedibili non previste. È però ingiusto parlare di calamità naturali (calamitose sono, semmai, le conseguenze), si dovrebbe piuttosto dire calamità provocate dall’uomo in seguito ad eventi che, di per sé, in quanto naturali, non sarebbero rovinosi.