Secondo lei

Da Stevie Wonder allo Ius soli

Si dice che “il primo amore non si scorda mai” e in effetti, come negarlo? La prima volta che mi sono innamorata avevo sei anni. Mi sono innamorata mentre stavo seduta per terra con in testa un paio di cuffie audio verdi, grosse come meloni e pesantissime. L’amore mi passò per le orecchie, “voi che per li occhi mi passaste il core”, per parafrasare il poeta Guido Cavalcanti, ed era l’amore per una voce incomparabile. Quella voce l’associavo all’unica immagine che avessi mai visto della faccia cui apparteneva: un ritratto stilizzato in bianco e nero al centro di una spirale psichedelica (era il 1976) sulla copertina del disco Songs in the key of life.

Il disegno rappresentava un volto maschile: capelli gonfi in cima, un paio di occhiali neri, naso dritto e labbra carnose. Era Stevie Wonder, e che fosse un uomo afroamericano è un dettaglio che scoprii qualche tempo dopo e che non aveva per me alcun significato particolare. Cominciò ad averne quando, con l’assolutismo testardo dell’amore, decisi che dovevo imparare l’inglese e scoprire cosa mai dicesse quella voce. Cominciai a decifrare i testi e così venni a parte di un mondo lontanissimo, ma che per me assunse la forza di un paradigma: si lotta sempre e comunque per i diritti civili di ogni minoranza, le persone sono tutte uguali di fronte alla legge e non possono essere discriminate  e giudicate in base al loro colore di pelle (né al sesso, alla razza o al credo religioso… insomma, l’art. 3 della Costituzione Italiana).

Non ne sono mai uscita, visto che il secondo amore fu il jazz e per me le divinità divennero Duke Ellington, Billie Holiday, Charlie Parker, Ben Webster, Coleman Hawkins, Sonny Rollins, Ron Carter, Eric Dolphy, Ray Charles, Nina Simone: la lista è infinita. Mi convinsi così che gli afroamericani fossero di fatto superiori alla razza bianca dal momento che erano in grado di produrre quella musica e quei discorsi, oltre al fatto di essere innegabilmente gente più bella di noi, naneronzoli pallidi.

La bolla s’infranse pochi giorni dopo l’inizio della quarta ginnasio, quando alla mia candida affermazione: “Stevie Wonder è il mio cantante preferito”, qualcuno mi rispose “chi, quel negro cieco e comunista?”. Dallo sconcerto passai subito dall’altra parte della barricata e seppi che per tutta la vita, “negro cieco e comunista” sarebbe stato qualcosa che avrei difeso in ogni modo. Tutta questa storia per dire che da allora non avrei mai mai e poi mai immaginato le reazioni attuali, che in tanti casi diventano deriva razzista. Al punto che la classe politica, chi per guadagnar voti chi per la paura di perderli, ha deciso di rimandare l’approvazione di una legge come quella sullo Ius Soli. Ma lo Ius Soli (per altro in versione temperata) non c’entra nulla con sbarchi di migranti e profughi. Sono due discorsi diversi: qui si tratta dei diritti di circa un milione di minori (di svariate nazionalità originarie) che di fatto sono italiani visto che in Italia sono nati o ci vivono da un tempo sufficientemente lungo, in Italia frequentano le scuole, l’italiano è la lingua che parlano e l’Italia è il Paese nel quale hanno diritto di avere diritti. Intanto, a mio figlio leggo i proverbi africani raccolti da Marco Aime nel suo bellissimo libro fotografico “Il soffio degli antenati”, non dimentico il mio primo amore, continuo a pensare, ostinata, che l’uguaglianza sia l’unica strada percorribile e che con la paura, che è un’emozione legittima, bisognerebbe farci qualche discorso più articolato di uno slogan.

Tag: stevie wonder, diritti, ius soli, immigrazione, costituzione

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