Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono. Lo diceva Giorgio Gaber, incarnando perfettamente l’orgoglio di appartenere a questo curioso Paese e, al contempo, la condanna che rappresenta. Fateci caso: spesso, quelli che esagerano con la retorica nazionalista, esibiscono la nostra gloriosa bandiera al contrario. Invece è verde, bianca e rossa, quella dei tre colori, che è sempre stata la più bella, come si diceva nel Risorgimento. Immagino la reazione a queste righe: chi mi ha scambiato per lo chef, Massimo, tre stelle Michelin, un conto in banca che volendo potrebbe comprarmi e usarmi come nano da giardino, si starà chiedendo da quando in qua mi sono messo a fare l’esegeta patrio. Chi invece vagamente mi conosce, si interrogherà sul perché mi occupi di stendardi, confini, eccetera, senza (ancora) nessuna delle boutade che mi procurano, da tempo, da vivere. Al netto di chi se ne sbatte.
Dicesi premessa. Cioè, ho premesso che il tricolore mi piace quando non mi fa arrabbiare. Ossia quando lo espongono a rovescio, all’ungherese. Ma anche quando lo abbinano ad minchiam a prodotti, arnesi, suppellettili e lo degradano a marchio di sovranità. A necessità ineluttabile. Roba che andrebbe assaporata in balcone, scandendo l’ora delle libagioni irrevocabili. Dimentichi che, certo, va bene il grano italiano. Ma con tutta la pasta che ci mangiamo non basterebbe nemmeno l’Ucraina (quando risorgerà). E che, certo, il pomodoro è LAVORATO IN ITALIA, scritto grande. Ma poi magari viene dalla Cina e manco ce ne accorgiamo. Che sì, gli adorabili salumi sono affettati al di qua delle frontiere. Spesso però di maiali importati. Che facciamo? Sfiliamo la salamella dal panino quando scopriamo che il suino ha il passaporto sbagliato? Qualcosa tipo “stagioniamoli a casa loro”?
Giorni fa, un deputato si lamentava dei troppi ananas stranieri. Ora, va bene che grazie al riscaldamento globale ormai si producono ottimi avocado anche in Liguria ma… davvero sentiamo il bisogno di rivendicare il cous cous italiano, l’hamburger patrio, il sushi tricolore? Il passo successivo è rimandare l’insalata russa da dove è venuta, o la zuppa inglese nella perfida Albione.
Il cibo è l’unica cosa che gira senza troppi problemi, passa le frontiere, muta d’accento e di pensiero. E di gusto. Il Sudamerica è pieno di piatti italiani storpiati dai nostri immigrati, gli Usa pullulano di pietanze tipo le fettuccine Alfredo, la parmigiana di pollo e altri crimini contro la digeribilità. La pasta più diffusa al mondo, gli spaghetti alla bolognese, è un’invenzione aliena la cui richiesta, a Bologna, vi procura come minimo un po’ di scherno. Più facilmente delle diffuse ecchimosi.
Eppure esistono. E non fanno male a nessuno, a parte qualche succo gastrico. Mentre quell’ostentare italianità nei cibi, ecco, fa male a chi ci casca. Titilla quelli che vorrebbero imporre 100 mila euro di multa a chi esagera con i forestierismi, e poi hanno istituito un ministero del Made in Italy, appunto, e nella legge contro le parole plutocratiche si dolgono – testuale – “degli slogan”. A ’sto punto avrebbero dovuto scrivere “motto”. Buffo, no? Un po’ come in quel bel film, “Gli anni ruggenti”, di Luigi Zampa, in cui Nino Manfredi veniva scambiato per un gerarca in missione segreta e, per compiacerlo, gli si parlava nel buffo italiano sognato dal duce e mai entrato in funzione: il cialdino al posto del cachet, la bevanda arlecchina in luogo del cocktail, e altre amenità di cui fu padre persino D’Annunzio. Ch’era meglio quando raccontava le acrobazie di Andrea Sperelli.
Morale: quando il dito indica la bandiera, e non siamo allo stadio o all’altare della Patria, occhio che non cambi posizione sino a diventare intrusivo. Sennò facciamo la figura di chi se l’è presa perché un’inchiesta del Financial Times ha dimostrato come la pasta alla carbonara non fosse altro che una colazione americana rovesciata sui bucatini. Tutto vero. E adesso, mentre addentate l’ultimo tocco di guanciale, chiedetevi se è davvero così importante chi l’abbia mantecato per primo. Da questa o quella parte dell’oceano.
E bon appetit (100 mila euro).

Tag: Alimentazione, Italia

Condividi su

Lascia un commento

Dicci la tua! Scrivi nello spazio qui sotto cosa pensi dell’articolo, la tua opinione è importante per noi.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.
Devi accettare i termini per procedere

Ho letto la policy privacy e accetto il trattamento dei miei dati personali

Iscriviti alla
newsletter

di Consumatori

Ricevi ogni mese via mail la rivista digitale e le notizie più interessanti

;