Sul vino si è sempre disquisito, ragionato, discusso. Di “bevitori curiosi e investigatori del buon vino” parla una novella di Boccaccio. A “sperti conoscitori” allude l’agronomo bolognese Piero de’ Crescenzi, agli inizi del Trecento. Due secoli dopo, il bottigliere di papa Paolo III, Sante Lancerio, descrive in una lettera i 52 vini incontrati dal pontefice nel corso dei suoi viaggi, con parametri articolati e una sorprendente puntualità lessicale: “tondo, grasso, asciutto, fumoso, possente, forte, maturo” sono alcuni degli aggettivi da lui usati. Per questo Sante Lancerio è spesso indicato come “il primo sommelier della storia”. Scegliere il vino con attenzione, valutarlo con competenza, servirlo con cura sono le sue incombenze di base.
Ma c’è qualcosa che distingue radicalmente il suo lavoro da quello dei moderni sommelier. Oggi, uno dei principali compiti di un sommelier è quello di scegliere gli abbinamenti vino-cibo. Secoli fa questa non era una preoccupazione, perché il vino non si riteneva “giusto” rispetto al cibo, ma rispetto alla persona: a ciascuno si riconosceva la responsabilità – il diritto, in un certo senso – di scegliere il vino assecondando il proprio desiderio in ogni momento del pasto. Anche in relazione al cibo, ovviamente, ma con un criterio totalmente soggettivo, che non si doveva (non si poteva) delegare a uno specialista, a un “esperto”, ma trovava la sua unica giustificazione nei segnali e nelle sollecitazioni del corpo.
Questa idea – lasciare a ciascuno la responsabilità di cosa ingerire – rispondeva a un convincimento profondo della scienza dietetica: nessuno di noi è uguale a un altro; i bisogni di ciascuno (che, indirettamente, trovano espressione in un particolare desiderio) sono strettamente individuali e come tali vanno soddisfatti. Perciò nel Medioevo e nel Rinascimento si usava servire il cibo su vassoi collettivi, da cui ciascuno pescava ciò che voleva, nella qualità e nella quantità desiderata. Il piatto lo costruiva il commensale a tavola, non il cuoco in cucina (come accade con l’odierna tecnica dell’impiattamento).
Per quanto riguarda il vino, è rivelatrice la testimonianza di Cristoforo Messisbugo, uno dei più famosi maestri di cucina dell’Italia del Cinquecento, in servizio alla corte estense di Ferrara. Dopo avere elencato le vivande che furono servite il 14 febbraio 1548 in occasione del Carnevale, per il duca, il principe e i loro ospiti (in tutto 27 invitati), taglia corto e rinuncia a descrivere i vini, «perché ad ognun se ne dava di quello che addimandava, o lo volesse bianco, o nero, o dolce, o brusco, o recente, o grande, o picciolo, o con acqua, o senza, secondo gli appetiti di ciascuno».
Secondo gli appetiti di ciascuno. In quella società, le mansioni del sommelier si limitavano all’approvvigionamento dei vini, alla loro conservazione in cantina, alla loro presentazione a tavola. Quali bere e come abbinarli al cibo non era affar suo.