L’elogio della stagionalità fa ormai parte del discorso comune sul cibo. L’epoca delle fragole a Natale non è finita: basta guardarsi attorno nei supermercati. Ma è finita l’epoca in cui le fragole a Natale erano di moda e potevano fare colpo; oggi è molto più chic il cibo di stagione e i grandi cuochi si vantano dell’orto che amorevolmente curano dietro l’angolo del ristorante. È il ritorno (a tutto vantaggio del gusto) di una dimensione mai sopita della nostra cultura alimentare.

È anche la rivincita di una modalità “contadina” e “popolare” di rapportarci al cibo, per secoli relegata su un piano di subalternità culturale rispetto a un modello aristocratico che, proprio per segnalare la propria differenza dal mondo contadino, chiedeva cibi possibilmente insoliti, fuori luogo, fuori stagione. In qualche modo, la scomparsa delle stagioni che ha accompagnato il successo dell’industria alimentare e del mercato globale è stata come una “democratizzazione” di questo modello elitario, divenuto accessibile ai più. Tutto ciò ha comportato una perdita secca in termini di cultura e di saperi, perciò dobbiamo salutare con piacere l’inversione di tendenza a cui stiamo assistendo.

Ma le stagioni non sono tutte “naturali”. Gli uomini, nei secoli, hanno inventato altre stagioni, ricorrenze “artificiali” che magari si allineano ai cicli del sole o della luna, ma con logiche proprie e ritualità – anche alimentari – scollegate da quei ritmi, o collegate in modo esile, accessorio. Un esempio che mi sembra tipico è quello del Natale. Fra le molte tradizioni che storicamente si sono affermate per celebrare a tavola questa ricorrenza, particolarmente significative sono quelle del “pane di Natale”, confezionato in tanti modi diversi ma sulla base di alcune idee comuni: dolcificare (cioè rendere speciale) il pane di tutti i giorni; arricchirlo di burro o di uova; farlo lievitare in modo più accurato del solito; farcirlo di uva passa, canditi o altro, per segnalare la “diversità” del prodotto, e conferirgli una carica propiziatoria e beneaugurante di straordinario valore simbolico. Nessuno di questi ingredienti può dirsi veramente “stagionale”: farina, burro, uova, uvette, canditi si trovano sempre. Tecnicamente, un panettone si potrebbe realizzare in qualsiasi momento dell’anno; eppure, passato il Natale nessuno lo chiede più. Le pasticcerie pensano ad altro. I negozi smaltiscono rapidamente le scorte, tra invitanti offerte 2×1 o 3×2. “Natale tutto l’anno” (come qualcuno si ostina a proporre) è uno slogan perdente.

qIl nostro senso del tempo non è stato sopraffatto dalla globalizzazione alimentare. La ritualità delle stagioni – naturali e artificiali – fa ancora parte del nostro immaginario e delle nostre abitudini. È una cultura dura a morire, e che pare sulla via di rinnovarsi.

Tag: panettone, stagionalità, tradizioni

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