I greci antichi avevano una parola per indicare la bellezza fisica che si unisce a quella morale: Kalokagahtia. Kalòs kai kagathòs ovvero bello e buono, nobile o onesto. Ogni eroe dovrebbe esserlo, ogni rappresentante politico, ogni cittadino. Un dono divino ma anche un valore sociale. Ne ridevamo come sciocchi, al ginnasio, per via di quella assonanza: le lingue straniere spesso giocano di questi tiri.
La buffa kalokaghatia è l’unione di due virtù supreme. Belli e buoni, fatti non foste a viver come bruti, come ammoniva il caro Dante Alighieri. Accontentarsi della sola forma non ci fa onore. La bellezza esteriore pensiamo che sia sempre immediata, che non vada scoperta, che sia subito visibile e parli una lingua semplice. Forse vale per la lingua di mercato: è bello ciò che facilmente si vende, quello che tutti vogliono perché gli viene propinato a suon di martellate psicologiche. Nella nostra società il concetto di bellezza è difficile da afferrare e spesso ha a che fare con un duro lavoro: si lavora sul proprio corpo per essere belli secondo gli standard legati alle tendenze, alle mode, si crede che per essere belli sia necessario mostrarsi in un certo modo e dunque possedere oggetti che riverberino su di noi la bellezza che crediamo dovremmo possedere.
Soprattutto per i più giovani non è facile attenersi a tutte queste regole dell’apparire che generano un momentaneo godimento quando sembra di esserci arrivati, ma anche un ben più profondo senso di frustrazione quando invece, per limiti propri e altrui, intrinseci ed economici, non ci si arriva. Non ci accoderemo ai fustigatori della bellezza che la scambiano per edonismo o superficialità e ci dicono che dovremmo pensare a valori più importanti, solidi e profondi. L’effimero e il piacere fanno parte della vita e della vita sono una delle porzioni più piccole, ma deliziose.
Gran parte della bellezza al mondo, a ben pensarci, non fa tanto chiasso, e soprattutto è gratis, non si vende e non si compra. Non si paga per una farfalla che si posa su una mano, per una coccinella sul vetro della finestra, per il profumo dei tigli a maggio, la forma perfetta di un rosso lampone maturo che sporge da un cespuglio, il sorriso di un bambino, la capriola di un cane, le fusa di un gatto. Un’alba, un tramonto, un bacio. Per possedere questo genere di bellezza non serve essere né ricchi né fortunati, serve essere attenti, e fiduciosi. In sostanza, accorgersene.
La percezione della bellezza è una di quelle qualità essenziali alla vita alla quali i bambini sembrano tendere per istinto e che spesso gli adulti distruggono con la loro disattenzione. Così a volte va reimparata, nel corso della vita. La bellezza dà piacere, dovrebbe darlo fine a sé stessa, senza il bisogno di volerla possedere, o prolungare. Anche nel momento più terribile e con la peggiore disposizione d’animo può accadere di essere testimoni di un attimo di bellezza. E certo per coglierla, bisogna esservi educati. Saperla riconoscere, accogliere, ammirare, goderne e lasciarla andare, perché il sentimento della bellezza è effimero. Certo, può riprodursi infinite volte ma la sua durata non è garantita, scontata. La cosa rassicurante è che somiglia alle leggi di natura, come il numero di Fibonacci e la sezione aurea, la proporzione divina: non dobbiamo occuparcene, il Cosmo fa tutto da sé, se non gli remiamo contro. Predisponiamoci a cogliere la bellezza e forse diventeremo migliori: kalokagathoi.