Il suolo è un bene comune limitato e non rinnovabile. I servizi che ci offre sono insostituibili: produzione di cibo, depurazione delle acque di falda, stoccaggio di carbonio, conservazione della biodiversità, difesa dalle alluvioni. E poi è l’elemento più importante del paesaggio: un suolo forestato o coltivato, intervallato da pochi centri abitati compatti è forse l’archetipo del panorama italiano che tutti ci invidiano. Eppure lo stiamo devastando senza tregua. La cementificazione italiana, secondo il più recente rapporto di Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – avanza al tasso di due metri quadrati al secondo e ormai quasi l’8 per cento del Paese è sigillato da manufatti artificiali e perso per sempre.

Non c’è dubbio che lo stop al consumo di suolo sia una delle più urgenti necessità per la difesa dei beni comuni e della qualità di vita delle generazioni future. La politica, pur sapendolo, indugia ad approvare la legge nazionale contro il consumo di suolo per via di mille interessi locali. Così, ben vengano i comuni dove si fanno scelte di riduzione delle aree edificabili o revisioni dei piani regolatori con ritorno di aree da costruire ad uso agricolo. Sono processi giuridicamente difficili e irti di ostacoli, ma molti sindaci ci stanno provando. Ho salutato dunque con gioia in tre comuni contigui della cintura torinese l’elezione di giunte che avevano nel programma la lotta al consumo di suolo. Insediati i nuovi amministratori, iniziano però le contraddizioni: una fabbrica si vuole ampliare, minaccia di trasferirsi e licenziare i dipendenti, davanti a sé ha dei capannoni sfitti, ma sostiene che non vanno bene, vuole costruirne uno nuovo adiacente: il sindaco si arrende, un altro campo verde è andato. Comune limitrofo, prima delle elezioni i futuri amministratori erano sulle barricate dell’ambientalismo, ora sul loro territorio è sorto un nuovo enorme centro commerciale laddove ve ne sono già tre, il motivo? Era stato autorizzato dalla giunta precedente, “non abbiamo potuto (o voluto?) opporci”. Terzo comune: un’area industriale mal progettata reclama una maggior viabilità per i camion: bisogna allargare la strada, ancora una volta al Dio della crescita si sacrifica altro terreno.

Tre sconfitte partite da buoni propositi. Interpellati, gli amministratori mi rispondono che la politica è mediazione, è compromesso, che i posti di lavoro sono più importanti di un prato. È vero, c’è sempre una scusa accettabile per giustificare un sacrificio di un bene comune. E un po’ qui, un po’ là, questo ragionamento – anche laddove non c’è dolo o speculazione – si divora la risorsa, è solo questione di tempo, ma se non si mette un paletto definitivo e invalicabile verrà consumata tutta. Ogni sindaco che verrà troverà la sua ragione di buon senso per asfaltare un altro pezzettino, per il lavoro, per la sicurezza, per i parcheggi, per lo sport, per lo sviluppo. Se un corpo ha un’emorragia grave, non basta fermarla a metà, bisogna interromperla del tutto, altrimenti morirà dissanguato ugualmente, in due ore invece che in una. Con le risorse non rinnovabili non si scherza, devono essere salvaguardate senza se e senza ma.

Tag: ambientalismo, biodiversità, sostenibilità, difesa del suolo, cementificazione

Condividi su

Lascia un commento

Dicci la tua! Scrivi nello spazio qui sotto cosa pensi dell’articolo, la tua opinione è importante per noi.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.
Devi accettare i termini per procedere

Iscriviti alla
newsletter

di Consumatori

Ricevi ogni mese via mail la rivista digitale e le notizie più interessanti