C’era molta paura per il possibile, ennesimo fallimento del quorum referendario. Gli italiani, stanchi di litigare e abulici, inebetiti da decenni di televisione commerciale e rammoliti culturalmente, incapaci di informarsi e scarsi lettori, non si sarebbero recati alle urne in massa, salvo poi ritornare in piazza solo a livello super-locale, magari quando si fosse scelto il proprio territorio per il sito della prossima centrale nucleare o delle scorie. Insomma, nessuna partecipazione come al solito. Aver rggiunto il 55% di partecipazione sconfessa questo atavico pessimismo e a ben vedere, dice qualcosa di più.
Guardiamo per esempio i dati della Sardegna, che già aveva votato contro il nucleare due settimane prima (anche se a livello consultivo regionale) e avrebbe dunque potuto accontentarsi di rendere difficile la vita al nucleare solo per sé. E, invece, i sardi si precipitano a votare in massa, arrivando a una percentuale più alta di quella nazionale. E dovunque si registra un plebiscito per l’abrogazione dei due quesiti ambientalmente più rilevanti, acqua e nucleare. Fukushima ha mostrato una realtà che una campagna pubblicitaria surrettizia aveva cercato di disconoscere: la sicurezza delle centrali nucleari non è intrinseca, anzi, c’è sempre qualche problema e, pure quando non c’è un incidente, fanno male lo stesso.
E li voglio vedere i commentatori “della terza posizione”, quelli che si chiamano fuori, quelli che “se il nucleare no, allora che facciamo, torniamo all’età della pietra?” Li voglio vedere, ora, quelli che “voi ambientalisti dite no a tutto e non proponete alternative”. Li voglio vedere quelli che “è meglio che su questi temi gli italiani non si pronuncino, che non sono maturi”. Quelli che “non si dovrebbe votare dopo un incidente come quello di Fukushima, perché sennò non si ragiona, ma si parla con il ventre”. Fatemi vedere tutti quelli che “senza nucleare non si può essere un paese moderno (mistero: come mai allora siamo la settima potenza del mondo?)”. Ma mi piacerebbe anche vedere quelli che “se l’acqua non si privatizza come facciamo a gestirla?” Facciamo come abbiamo fatto finora, garantendola a tutti 24 ore su 24 dentro casa.
E quelli che “chi riparerà gli acquedotti adesso?” Nessuno, esattamente come sarebbe accaduto con i privati, che certo non avrebbero mai pagato quei 60 miliardi di euro necessari, e ne avrebbero però lucrato un aumento delle tariffe per legge, senza migliorare il servizio. Fra questi ci sono quegli industriali casarecci che non hanno mai avuto il coraggio di una scelta innovativa in mezzo secolo, quelli che “le rinnovabili non sono industrialmente interessanti” e “senza nucleare non si va da nessuna parte”. Quelli che hanno paura della propria ombra e non sanno cosa voglia dire la ricerca, quelli che sono gli ultimi in Europa a passare al sacchetto biodegradabile. Li voglio proprio vedere. Anzi, no: vorrei non vederli mai più.
Mario Tozzi