Agricoltura e clima sono legati a filo doppio: da sempre siccità, geli, alluvioni e grandinate hanno distrutto raccolti e generato carestie. L’estate 2017 in Italia, la seconda più calda dopo il 2003 e la quarta più siccitosa in 200 anni di osservazioni meteo, ha mostrato ancora una volta quanto la filiera agro-alimentare sia influenzata dalle anomalie climatiche: dalla difficoltà di irrigazione delle coltivazioni ai nuovi parassiti che si diffondono per il caldo.

Ma il settore agricolo dell’era industriale è anche fonte di un quinto delle emissioni globali di gas serra, sia attraverso l’utilizzo di energia fossile e prodotti chimici di sintesi, sia per le emissioni di metano derivanti dall’allevamento dei bovini e dalla gestione dei suoli. Quello che ciascuno di noi mette nel piatto ha dunque un forte legame con i cambiamenti climatici e la crisi ambientale. In base agli scenari  futuri e all’accordo di Parigi sul clima, se non si farà nulla per ridurre le emissioni globali, entro il 2100 la temperatura terrestre potrebbe aumentare di circa 5 gradi Celsius e gli eventi atmosferici estremi potrebbero diventare più frequenti, compromettendo gravemente la produzione alimentare globale.

È dunque importante limitare il riscaldamento a 2 gradi, uno scenario che pur senza essere privo di effetti negativi, è ritenuto “accettabile” per noi e per le generazioni future. Ma per ridurre le emissioni, ognuno di noi ha bisogno di conoscere ciò che “sta dietro” a quello che consuma: con quali metodi è stato prodotto questo alimento? Da dove viene? Quanta energia e quanta acqua ha richiesto? Quanti danni occulti ha provocato all’ambiente? Per rispondere a tali quesiti sono stati elaborati vari metodi di valutazione: il più comune è l’Analisi del Ciclo di Vita del prodotto (LCA–Life Cycle Assessment) che quasi sempre si focalizza sui chilogrammi di CO2 emessi per kg di alimento. Ma è un dato sufficiente per giudicare la sostenibilità di un prodotto alimentare? I risultati di uno studio che Slow Food ha condotto in collaborazione con Società Meteorologica Italiana ritengono di no. Infatti per definire la sostenibilità di un sistema alimentare ci sono molte altre variabili in gioco, spesso difficili da tradurre in un solo numero. Inoltre, molti dei risultati oggi disponibili sono difficilmente comparabili e comprensibili per il consumatore finale. Il metodo di coltivazione o allevamento rispetta la biodiversità? Mantiene la fertilità dei suoli limitandone l’erosione? La filiera produttiva è attenta alla riduzione di sprechi e rifiuti e rispetta la cultura locale e la sostenibilità sociale? Il valore nutrizionale dell’alimento è bilanciato rispetto al suo costo ambientale? Questa complessità richiede indicatori più completi di quelli oggi disponibili. Solo con informazioni più esaurienti noi consumatori potremo compiere scelte alimentari più consapevoli nei confronti dell’impatto del cibo su clima e ambiente. In attesa di poter vedere questi nuovi dati sull’etichetta dei nostri cibi, ci si può comunque orientare verso metodi di agricoltura biologica e a basso impiego di agro-farmaci, sistemi commerciali a filiera corta, scelta di prodotti stagionali e diete a limitato consumo di carne. 

Tag: Clima, riscaldamento globale

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