Dmytro Kuleba, 41 anni, è il ministro degli esteri ucraino. Lorenzo Cremonesi gli ha fatto una lunga intervista per il Corriere della Sera nei giorni più brutti della guerra. Prima di rispondere a domande terribili – i bombardamenti, la richiesta di armi, le possibilità di una trattativa – il ministro ci tiene a dire una cosa che gli sta a cuore: il suo affetto per i Ventre, una famiglia di Atripalda, Avellino. Perché lo accolsero “con amore come fossero i miei genitori”. Dmytro Kuleba è un bambino di Chernobyl, quelli che dopo il disastro nucleare venivano a pulirsi i polmoni e l’anima, ospiti di famiglie italiane.
Cominciarono ad arrivare qualche mese dopo l’aprile del 1986 e da allora sono stati più di 650 mila. La maggior parte bielorussi – il vento aveva portato la nube radioattiva verso quei cieli – ma anche tantissimi ucraini. Stavano alcune settimane, soprattutto d’estate. “Soggiorni terapeutici di risanamento”, perché dopo un mese di permanenza lontano da Chernobyl gli isotopi radioattivi nel corpo dei bambini scendevano fra il 35% e il 65%, a volte fino al 90%. E poi l’alimentazione migliore – una mamma italiana può riversare in un bambino, da qualunque parte arrivi, una quantità di cibo impressionante – il sole, le visite mediche specialistiche difficili da farsi nell’ex Unione Sovietica in sfacelo, le cure odontoiatriche.
Le famiglie che hanno accolto raccontano di aver dovuto imparare in fretta la parola potòm. Significa dopo e andava usata continuamente con questi bambini che volevano un gelato, un pizza, un altro gelato, un gioco o una delle mille tentazioni che c’erano nelle nuove case. E la volevano subito: “Aspetta, potòm, dopo, con calma”.
Molti anni dopo, adesso, Yulia è arrivata a Pezze di Greco, (Brindisi), dopo un lungo viaggio da Kiev, scappando dalla guerra. Ad aspettarla c’erano Orazio Rubino e Enza, la moglie. L’avevano ospitata 26 anni fa, lo rifanno adesso. Per lei e per sua figlia. Danijl e Sasha si sono conosciuti, bambini di Chernobyl, a Genova. Erano ospiti di due famiglie diverse. Si sono sposati e lui è ingegnere a Odessa, lei fa l’insegnante e ora, con la figlia, è ospite della signora Caterina, la “mamma” genovese di Danijl. Lui è rimasto in Ucraina, loro sono al sicuro. Irina arrivò per la prima volta a Partanna (Trapani) a 11 anni, per una vacanza di qualche settimana, era Natale, era ospite della famiglia di Nino Asaro. Quando è scoppiata la guerra le è sembrato naturale chiedere rifugio a loro. Artemio Berto, pensionato di Saonara (Padova), ha offerto casa a Dimitri quando aveva 11 anni. Adesso ne ha 34 ed è tornato con Alexandra, la moglie, e una figlia di quattro anni.
Il dopo è fatto di molte cose. Durante i primi terribili mesi della pandemia, quando l’Italia era il paese più colpito, il ministro Kuleba aveva inviato 13 medici e 7 infermieri ucraini a dare aiuto nelle Marche. E lo aveva ricordato: «Nell’estate del 1994, da ragazzo tredicenne, ho vissuto presso una famiglia di Atripalda. Con tutta la famiglia italiana, stavamo guardando la semifinale dei Mondiali Italia-Bulgaria e io gridavo “Baggio”. La foto in cui siamo felici con la bandiera italiana sul balcone dopo la partita è una delle più importanti nel mio album di famiglia».