C’è stato un tempo, lunghissimo, in cui ogni mancanza era sentita come una spiacevole situazione di emergenza, talvolta drammatica, a cui far fronte con mezzi e soluzioni straordinarie. Nel Medioevo, se mancava il grano per fare il pane si ricorreva a cereali meno pregiati, oppure – per via di successive sostituzioni – alla farina di legumi, o di castagne, o di ghiande (sottratte per l’occasione ai maiali).
Se poi la carestia portava via tutto ci si ingegnava a usare radici, frutti selvatici, perfino la terra, a comporre incredibili “pani di carestia” che in qualche modo garantivano la continuità di una cultura. Ogni assenza metteva in moto meccanismi di surrogazione: rimpiazzare ciò che mancava con qualcos’altro, sperando di tornare al più presto alle pratiche consuete, ai sapori abituali.
Fenomeni del genere si sono verificati fino ai giorni nostri, raggiungendo il massimo di intensità nei periodi di guerra, quando la mancanza di cibo forzava i governi ad attuare restrittive politiche di razionamento. Senza caffè, senza zucchero, senza carne come si poteva tirare avanti in modo il più possibile ‘normale’, sopportare (anche psicologicamente) il dramma che viveva? I libri di cucina scritti in quegli anni rispecchiano questa ossessione: Amalia Moretti Foggia, meglio nota con lo pseudonimo Petronilla, tra il 1941 e il 1943 pubblicò ricettari dai titoli più che espliciti: Ricette per tempi eccezionali; Ricettario per i tempi difficili; Suggerimenti per… questi tempi. Dove insegnava a “mascherare” in qualche modo le mancanze realizzando maionesi senza olio, gelatine senza carne, dolci senza zucchero, cioccolata senza cioccolata, caffè senza caffè. Nei giornali di quegli anni si legge anche come fare fagiolini senza fagiolini (utilizzando i gambi degli spinaci) o spinaci senza spinaci (con foglie di carote e ravanelli).
Poi è venuta l’età dell’abbondanza e la paura del poco ha lasciato il posto alla paura del troppo. L’ossessione del cibo ha preso altre vie, applicandosi non ai prodotti che mancano e ci sono dolorosamente sottratti, ma a quelli che inopinatamente si moltiplicano e si aggiungono, complici le alchimie dell’industria alimentare, l’apparire di sconosciute patologie e di nuovi timori per la salute, il diffondersi, anche, di una rinnovata esigenza di sobrietà.
Ed ecco che, improvvisamente, la parola «senza» cambia significato. Nell’uso odierno essa non evoca più tristi mancanze, ma al contrario si carica di valori positivi. Senza sale, senza zucchero, senza glutine, senza coloranti, senza aromi aggiunti, senza questo e senza quell’altro i cibi appaiono – non necessariamente sono – migliori, e culturalmente valgono di più. E costano di più, normalmente. Più cose ci sottraggono, più siamo disposti a spendere. Paradossi della storia.