Qualche mese fa ho comperato un cimitero usato. Meglio, ad essere precisi, ho partecipato all’asta per la vendita del cimitero. E ho vinto, anche perché ero l’unico partecipante. Adesso aspetto che il comune dia seguito alla pratica per entrare in possesso del bene. Che cosa me ne faccio di un piccolo cimitero usato in un bosco sull’Appennino, abbandonato da cinquant’anni, semicrollato, con le mura sommerse dai rampicanti e invaso dal bosco? È una buona domanda. Diciamo che una risposta precisa non ce l’ho. E neppure so dire bene perché ho proprio voluto comprare un cimitero.

I figli, con la cortesia che hanno sempre verso noi genitori, parlano esplicitamente di una demenza senile e della necessità di un amministratore di sostegno che mi impedisca di dilapidare il peraltro risibile patrimonio familiare. Io so solo dire che mi si spezzava il cuore a vedere andare in rovina quel piccolo recinto di terra, uguale ai campi che gli stanno intorno, ma diverso per via di quelle mura che lo circondano. E lo fanno più importante, più giusto, più santo. Mia mamma – ho pensato – avrebbe detto Camposanto. Un posto importante per la memoria che ha costudito, per quello che ha accolto, per l’incontro che permetteva, fi no a quando non è stato abbandonato, tra i vivi e quelli che non ci sono più. L’ho detto ai figli che per la nonna questo è un camposanto. Secondo loro, invece, mia mamma mi avrebbe semplicemente diseredato. Ma la questione forse rimane: che cosa ce ne facciamo, noi umani, di tutto quello che abbiamo messo su e adesso non utilizziamo più? Delle fabbriche abbandonate, degli snodi ferroviari dove non passano più treni, delle vecchie case cantoniere rosse, delle colonie estive tra i pini dell’Adriatico e delle caserme in Friuli?

In Italia, dice l’Istat, ci sono 740 mila edifici non utilizzati, il 5% di quelli che abbiamo costruito consumando suolo. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede 3 miliardi per la rigenerazione urbana e altri 2 miliardi e settecento milioni per la rigenerazione del “patrimonio culturale religioso e rurale”. Sta parlando del mio cimitero, è chiaro. A Forlì un’associazione di persone intelligenti – si chiamano Spazi Indecisi – ha messo su il Museo diffuso dell’abbandono.
Dicono che in Romagna, come dappertutto, ci sono innumerevoli luoghi in stato di abbandono e “ognuno rappresenta una ferita dei nostri tempi sempre più complessa da curare”.

Con l’associazione si possono visitare una settantina di luoghi in disuso: fabbriche, conventi, colonie, chiese, ville, parchi divertimento, discoteche, edifici industriali e anche tre navi. Sono lunghe 110 metri, sono di una società riconducibile al colosso russo Gazprom, sono navi fluviali di fine anni ’80 che nel 2006 arrivarono a Ravenna da Sebenico, Croazia, con un carico di pietrame. Furono fermate per una questione di sicurezza e poi non sono più salpate: questioni di debiti e sequestri. Le chiamano “Le tre caravelle” e vederle, arrugginite e imponenti, fa pensare.

Tocca pensarci. Perché quello del riuso e della rigenerazione è, anche e soprattutto, un cambiamento culturale: trasformare e riusare, tenere memoria e fare futuro invece di costruire ancora, consumando suolo e beni.
Se avete idee su cosa fare in un piccolo cimitero usato nei boschi del Mugello, fatemi sapere.
Niente feste di Halloween, sia chiaro.

Tag: riuso, rigenerazione, edifici dismessi

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