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Per la Basilicata meglio il turismo o le trivelle?

Ho preferito scrivere di trivellazioni e idrocarburi a referendum espletato per evitare di entrare nella spirale di polemiche pre-voto. Una questione centrale, però, mi sembra sia stata elusa: ha senso trasformare integralmente l’economia di una regione a vocazione eminentemente agricola, pastorale e turistica come la Basilicata per ottenere una fonte energetica effimera e che ha un impatto sociale e ambientale devastante? Lo sviluppo economico legato ai combustibili fossili e all’uso dei carburanti ha il fiato corto, soprattutto perché è legato a una logica insensata dell’incremento dei consumi, come se il pianeta Terra fosse diventato improvvisamente inesauribile. Purtroppo così non è, e, anzi, è ormai obbligatorio dubitare che possa esistere una qualsiasi forma di sviluppo economico sostenibile dal pianeta. Per questa ragione si comincia a fare strada la nozione di decrescita sostenibile, frase che fa accapponare la pelle agli economisti, ma che è evidentemente l’unica via per una Terra così densamente popolata.

L’attuale economia energetica si basa su pozzi, oleodotti, raffinerie, centrali termoelettriche, linee di trasmissione che, tutte assieme, assommano a circa 10.000 miliardi di dollari, un prezzo che nessuna società potrà ammortizzare se non prima di una trentina di anni. Dunque, nessuna meraviglia se le compagnie petrolifere vogliono sfruttare il petrolio fino all’ultima goccia, visti anche i ricavi faraonici che possono lucrare da ogni giacimento. Il petrolio lucano (viste le royalties così basse) non sfugge a questa logica: denari spesi in opere la cui utilità è spesso dubbia e scarsa propensione al raffreddamento dei consumi. Con la possibilità concreta che, una volta finito lo sfruttamento, quello che resta in mano sia davvero poca cosa: territorio devastato e/o controllato dalle corporation, occupazione a zero, frutteti abbandonati e aree archeologiche o naturalistiche trascurate. Investire tutte le potenzialità in quel mondo significa comunque non interessarsi più dei settori tradizionalmente forti della Basilicata: agricoltura di pregio, turismo, beni culturali e parchi devono resistere comunque.

Tutto questo come se non ci fosse stata la Conferenza di Parigi sul clima, in cui il nostro paese ha controfirmato un accordo su base volontaria per uscire progressivamente dai combustibili fossili, primo obiettivo -50% entro il 2030. E quando vogliamo farlo, tutto nel 2029? Di questi ragionamenti non c’è stata eco nel dibattito mediatico, come se il progresso non dovesse mai fermarsi a riflettere, ma solo avanzare. Verso dove? Però sempre più persone oggi nutrono il dubbio che forse sarebbe stato meglio lasciare quel petrolio lucano a riposare nel sottosuolo, magari a costituire una riserva strategica da usare nel momento del bisogno o, semplicemente, per aver compreso che non si può basare lo sviluppo su risorse che stanno per finire.

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