«Il pane di ieri è buono domani», dice un proverbio da cui prende avvio un libro recente di Enzo Bianchi, dedicato alla cultura del cibo nella tradizione contadina, alla sapienza con cui la società rurale ha elaborato pratiche intelligenti di recupero e di riuso degli “avanzi”, mai concepiti veramente come tali, ma piuttosto come una sorta di risparmio, come un bene “messo da parte” per poterlo poi utilizzare in un momento successivo.
Di questa cultura – abissalmente lontana dall’abitudine allo spreco, tipica della società dei consumi – troviamo tracce ovunque nella documentazione storica: nel mondo contadino, ovviamente, ma anche altrove.
Una regola monastica del VI secolo, originaria dell’Italia centro-meridionale, chiamata Regola del Maestro perché scritta in forma di dialogo fra un anonimo «Magister» e un discepolo che ne ascolta i consigli, contiene (come di consueto) numerose e dettagliate disposizioni di natura alimentare. Fra di esse, una norma riguarda le «micae panis», le briciole che alla fine di ogni pasto rimangono sulla tavola. I monaci – si raccomanda – le raccolgano con cura, conservandole in un vaso asciutto e pulito. Ogni settimana, il sabato sera, le mettano in padella con un po’ di uova e farina e ne facciano una piccola torta da mangiare tutti insieme, rendendo grazie a Dio prima dell’ultima coppa di bevanda calda che conclude la giornata.
È il pane di ieri, e dell’altro ieri, e dell’altro ieri ancora, che verrà buono domani. Basterà accomodarlo con garbo, riutilizzarlo in ricette nuove e gustose. In questo modo, ciò che poteva sembrare perduto sarà subito ritrovato e quasi magicamente si trasformerà in guadagno, come un piccolo risparmio affidato al salvadanaio.
Sono stato a Bruxelles qualche settimana fa, e mi è capitato di pranzare in un ristorante che ha in carta il «pain perdu», pane perduto, come si chiama in francese: per dire, appunto, il pane del giorno prima, che secondo una ricetta tradizionale si sbatte in padella con uova, farina, zucchero e un po’ di burro – qualcosa che, a parte lo zucchero, assomiglia molto alla torta dei monaci medievali. A fianco di quel nome, vedo la traduzione fiamminga (l’altra lingua nazionale del Belgio): «gewonnen brood». Qualcosa non mi torna, ma poiché non conosco questa lingua chiedo aiuto a un collega per decifrare l’espressione: significa, mi dice, “pane guadagnato”. È stata una scoperta sorprendente: la ricetta, nelle due lingue, è chiamata con nomi profondamente diversi, anzi opposti – almeno all’apparenza: in realtà sono le due facce della stessa medaglia. Ciò che si perde si può ritrovare, e quando ciò accade è tanto di guadagnato.
Dimenticavo: il «pain perdu» /«gewonnen brood» era squisito.