Il cronista Rodolfo il Glabro racconta che nel 1032-33, durante una terribile carestia, fu tentato un esperimento singolare: «Molti estraevano una sabbia bianca, simile ad argilla, e, mischiandola alla quantità disponibile di farina e di crusca, ne ricavavano delle pagnotte, per cercare anche così di scampare alla fame».
A leggere queste righe, il primo sentimento è di commiserazione: quanta fatica, quante sofferenze hanno patito gli uomini per sopravvivere – non solo nel Medioevo: notizie come questa sono ricorrenti nelle cronache, attraverso i secoli. Ma è possibile vedere le cose in modo diverso. Fare il pane con la terra era una risposta consapevole, controllata, “razionale” all’incombere della fame. Una vera sfida culturale. Nella storia dell’alimentazione, che è spesso una storia di fame, i pani “di sostituzione” sono una regola. Solo in casi estremi si ricorreva alla terra (e non deve trattarsi di esagerazioni retoriche: in varie regioni del mondo esistono tipi di argilla realmente commestibili). Più normalmente si usavano cereali inferiori, legumi, castagne (“pane d’albero” sono chiamate nei documenti). Nei momenti più difficili si cercavano le ghiande, sottraendole ai maiali. Perfino erbe e radici selvatiche erano forzate a realizzare piatti noti, sapori conosciuti. Un altro cronista medievale, Gregorio di Tours, racconta che nel VI secolo «una grande carestia oppresse le Gallie. Molti facevano il pane con i semi dell’uva o con i fiori dei noccioli; altri con le radici delle felci pressate, seccate e ridotte in polvere, mescolate con un po’ di farina. Altri facevano la stessa cosa con l’erba tagliata nei campi». Tutto ciò era segno di fame profonda, ma non meno profonda era la cultura che queste pratiche presupponevano: saperi consolidati dall’esperienza, costruiti di generazione in generazione dietro la spinta della necessità.
Anche gli scienziati si occupavano di queste pratiche sostitutive, per insegnare ciò che, probabilmente, i contadini già sapevano bene. Ibn al-Awwan, un agronomo arabo del XII secolo, scrive che se si vuole fare il pane con prodotti inusitati ci vuole molta prudenza, e crescente attenzione a mano a mano che si passa dai cereali ai legumi, alle piante foraggere, alle verdure e ai frutti domestici, infine alle erbe e alle radici selvatiche.
Di particolare interesse è il ruolo che attribuisce al gusto in queste difficili operazioni. Perché certe piante potrebbero non essere commestibili, e allora “bisogna verificarne il gusto di base, e se non è buono modificarlo con opportuni procedimenti”, soprattutto attraverso successive bolliture; “quando il gusto è diventato buono, si fa seccare il frutto, lo si macina, indi si procede alla panificazione”. È il gusto, in fin dei conti, a fare da guida nella scelta e nel trattamento dei prodotti. Anche il mondo della fame ha bisogno del gusto per sopravvivere.