Una delle conseguenze della scarsa diffusione della cultura scientifica è che l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti della tecnologia oscilla fra due poli: da una parte il sospetto verso ogni “nuova diavoleria”, e dall’altra una fede cieca nell’esistenza di una soluzione tecnologica per tutto.
Così, quando si è iniziato a parlare di app per il tracciamento dei contatti e la rilevazione del rischio di contagio, il messaggio che girava – anche per responsabilità di una comunicazione pubblica piena di semplificazioni e salti logici azzardati – era che sarebbe bastato scaricarla e attivarla per fermare la diffusione del coronavirus, consentendoci di uscire velocemente dal lockdown.
In quella fase, chiunque avanzasse dubbi o chiedesse chiarezza sull’architettura del sistema di tracciamento veniva zittito al grido di “hai già regalato i tuoi dati a Facebook e a Google, adesso fai storie per cedere un po’ di privacy in cambio della salute?”. Per fortuna poi, grazie alla discussione aperta fra esperti di sicurezza e attivisti e grazie anche alla posizione pro-privacy dei grandi network tecnologici, ha prevalso una soluzione più equilibrata: si raccoglieranno solo i dati indispensabili; questi dati non saranno memorizzati in un sistema centrale, dove avrebbero potuto essere usati per altri scopi, ma conservati sui singoli smartphone, per il tempo strettamente necessario a verificare i potenziali rischi di contagio.
Il tracciamento, da solo, non serve a niente Come puntualizza l’epidemiologo Alessandro Vespignani, una strategia efficace di contenimento del virus si basa sulle cosiddette 3T:
Testare: attrezzarsi per fare tamponi e test sierologici in gran numero, sia in presenza di sintomi leggeri, sia agli asintomatici a rischio;
Tracciare: poter ricostruire, a partire da ogni caso, la catena dei potenziali contagi;
Trattare: avere terapie migliori e un numero sufficiente di letti in terapia intensiva, agire in uno stadio più precoce della malattia, potere ospitare i malati in residenze ad hoc perché non contagino i familiari.
Se non ci sono test e trattamenti, il tracking da solo non serve a nulla.
La tecnologia non è infallibile Gli algoritmi possono sbagliare; i server possono essere hackerati; ogni sistema richiede interventi umani, e le persone possono sbagliare o agire con secondi fini.
Non sarà una app a salvarci, e per trovare soluzioni che funzionano bisognerà sempre esaminare più punti di vista, con pazienza e umiltà.
Le domande da farsi sulle app Carola Frediani, esperta di sicurezza informatica che ho già citato in questa rubrica, ha scritto vari articoli sulla questione delle app di tracciamento; in particolare ne consiglio uno che parte con alcune domande da farsi prima di affidarsi ciecamente a qualunque app. www.valigiablu.it/coronavirus-emergenza-tecnologia/
Il coronavirus spiegato bene Roberta Villa è una giornalista scientifica dotata di rara chiarezza e onestà intellettuale, che in questi mesi è stata una fonte preziosa di notizie affidabili. Potete seguirla su Instagram @robivil e su Facebook www.facebook.com/lavillasenzavirgola/