Qualche settimana fa, “cena didattica” sull’Appennino emiliano. Organizzata – con le dovute cautele – da un amico architetto (e gastronomo) che crede nello straordinario potenziale di conoscenza, dunque di libertà, che il rapporto col cibo può regalarci se lo attiviamo in modo consapevole, riflettendo sulle prospettive, storiche, geografiche, economiche, tecnologiche, sociali, e beninteso gustative, che fanno del cibo un’esperienza complessa e tutta da capire. Di qui l’idea di partire dal cibo per aprire nuovi orizzonti, scegliendo ogni volta un protagonista diverso. Stavolta è di turno il mais, cioè la polenta.

“Cioè” la polenta? Fermiamoci a soppesare quel “cioè”. Da noi (in Italia, in Europa, nel Mediterraneo) mais vuol dire polenta. Non però nell’America centrale, terra di origine del mais, arrivato da oltre Oceano dopo i viaggi di Colombo. Un paradosso da spiegare. Gli indigeni d’America vivevano di mais – erano addirittura “fatti” di mais, secondo le leggende maya – ma nessuno ne faceva polenta, cioè bolliva in acqua la sua farina. Questo era tecnicamente impossibile: i chicchi di mais sono troppo duri, non si riducono in farina pestandoli nel mortaio. Solo una macchina, il mulino, è in grado di farlo, ma nell’America precolombiana il mulino non esisteva. Una millenaria tradizione aveva insegnato che il modo più efficace di trattare quel cereale era pestarlo in ambiente umido, aggiungendo acqua nel mortaio, assieme a sostanze acide (calce, conchiglie…) che ne favorivano lo scioglimento. Ne risultava una pasta, detta “massa”, che si metteva a seccare in forma di mattonelle prima di riutilizzarla per varie preparazioni.

Nel mondo mediterraneo, invece, il mulino era presente fin dall’antichità, usato per macinare ogni sorta di grani per ridurli in farina e poi ricavarne pane, pasta, polenta, secondo gli usi alimentari e le vocazioni di ogni cereale. La polenta, i contadini romani la facevano col farro; nel Medioevo si puntò sul miglio e su altri cereali come il panìco e il sorgo. Poi si cominciò a farla col nuovo cereale arrivato dall’America, che, essendo più produttivo, spodestò i cereali usati prima. Di quei grani, il mais prese il posto e talvolta il nome: “melega” (vecchio nome del sorgo) fu chiamato in Veneto; “millet” ossia miglio fu chiamato in Francia.

Esiste dunque, nella nostra storia alimentare, una polenta senza mais. Esiste anche dopo l’arrivo del mais, tant’è che Manzoni, nei “Promessi sposi”, ambientati nella Lombardia del Seicento, fa mangiare a Tonio una polenta “bigia” di grano saraceno – ben sapendo, il Manzoni, che a quell’epoca il mais non era ancora diffuso. Riflettere su un rapporto assai meno ovvio di quanto potrebbe sembrare (quello fra mais e polenta) è un modo per rendersi conto che nulla è ovvio, nella storia come nella vita.

Tag: mais, polenta, maya, mulino

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