In un libro recente, dedicato alla storia della cucina bolognese, ho osservato che nei ricettari del XV-XVI secolo la specialità con attribuzione bolognese di gran lunga più citata è la “Torta d’herbe alla Bolognese”, variante locale di un piatto tipico della cucina medievale e rinascimentale: la torta salata ripiena.
La cosa potrebbe stupire chi pensa alla cucina petroniana solo in termini di mortadelle e tortellini, ma non stupisce lo storico, che nei testi medievali e rinascimentali, e ancora nel Seicento, trova elogiata l’eccellenza gastronomica di Bologna in una declinazione assai più “mediterranea” di quanto non la percepiamo oggi: verdure (cavoli, cardi, finocchi…) e frutta (uva, fichi, olive…) costituiscono il suo punto di forza, così da giustificare l’espressione “orto di Roma” che fin dal Medioevo ritrae la città come distributrice privilegiata di questi prodotti nello Stato pontificio – e non solo, vista l’ampiezza di questa fama.
La prima “torta bolognese” di cui abbiamo la ricetta è nel testo di Maestro Martino, il cuoco di maggior reputazione nell’Italia del Quattrocento. La sostanza è di bietole, uova e formaggio grattugiato, i profumi sono di prezzemolo e maggiorana, pepe e zafferano. Uovo e zafferano vanno anche spalmati all’esterno, per rendere la torta “più bella” con il colore giallo, simbolo di gioia e immagine dell’oro, che tanto piaceva agli uomini e alle donne del tempo. La ricetta di Martino è riproposta dall’umanista Platina, mentre Bartolomeo Sacchi, il cuoco di punta del Rinascimento italiano, in servizio alla corte papale dopo aver lavorato a Milano, a Venezia e a Bologna, nel suo monumentale ricettario (1570) preferisce virare sul verde: “torta verde” la chiama, o “torta d’herbe”, sempre “alla bolognese”. Ingredienti principali restano le bietole e il formaggio, ma scompaiono le uova. In aggiunta al pepe Scappi consiglia la cannella, onnipresente nella cucina rinascimentale. Come grasso di cottura prescrive il burro (Martino invece lasciava scegliere fra burro e strutto). Come Martino, raccomanda di tenere la torta molto bassa: “a pena sarà alta mezzo dito”. Si servirà bella calda, con una spolverata di zucchero – la contaminazione fra dolce e salato è un carattere tipico del gusto rinascimentale, almeno nell’alta cucina dato il costo proibitivo dello zucchero.
Questa specialità era diffusa anche nelle campagne: il contadino raffigurato da Annibale Carracci in un famosissimo dipinto, noto come “il mangiafagioli”, ha davanti a sé proprio quel piatto, che immagineremo nella sua versione più semplice ed economica, senza spezie, senza zucchero e con lo strutto al posto del burro. In un modo o nell’altro, essa sarà riconosciuta per secoli come elemento distintivo della gastronomia locale: la “torta di bieta alla bolognese” è uno dei pochi riferimenti autoctoni nelle liste di vivande di Vincenzo Tanara, agronomo bolognese di metà Seicento. Oggi, chi la ricorda più? Nessuno – almeno a Bologna…
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Il titolo di questo articolo è fuorviante, poiché in nessuna riga dell’articolo si parla di “erbazzone”, bensì di ““Torta d’herbe alla Bolognese”, che è una cosa assai diversa: uova, prezzemolo, zafferano, cannella, burro nulla hanno a che vedere con il vero erbazzone, che tutti sanno (o dovrebbero sapere) essere un piatto tipicamente reggiano.
Ostinatevi pure a chiamare il formaggio solo “Parmigiano”, pensate pure che solo a Modena producano l’aceto balsamico tradizionale o identificate il lambrusco con Sorbara, ma non toccate l’erbazzone.
Grazie.