“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. Così scriveva Italo Calvino ne “Le città invisibili” e come dargli torto? Con l’arrivo della primavera finalmente si ricomincia a passare più tempo all’aperto: desiderio e bisogno di luce, aria, apertura e incontri. Andare a scuola o al lavoro in bici, prendere il caffè seduti all’aperto, leggere il giornale o rispondere agli sms sulla panchina di una piazza. Lasciar giocare un po’ liberi i bambini e portare a passeggio i cani.
Non sempre però, gli spazi pubblici che abbiamo a disposizione nelle nostre città rispondono alle nostre esigenze. Si ha come la sensazione che persino le piazze, che per secoli – millenni! – sono state il luogo d’incontro della comunità siano diventate, al pari delle strade di percorrenza, spazi da attraversare in fretta e non spazi nei quali sostare. In molte città d’Italia, le panchine sono state eliminate, drasticamente ridotte oppure munite di sbarre di ferro per evitarne l’utilizzo, da parte di senzatetto e perdigiorno, come ripari di fortuna, camere da letto open air o tavoli da picnic. Il decoro urbano e l’ordine pubblico hanno la meglio sull’idea della sacralità dello spazio condiviso che a tutti appartiene e per tutti deve essere pensato o ripensato, tenendo conto ovviamente delle problematiche di sicurezza.
In tutta Europa molti architetti e filosofi si sono interrogati sulle caratteristiche che dovrebbero avere gli spazi pubblici – sia indoor, che outdoor – come spazi di relazione, luoghi che per la comunità – eterogenea, con esigenze diverse – devono essere pensati in modo da poter poi essere vissuti. Una piazza deve poter accogliere le persone di ogni età, devono esserci delle sedute, deve essere possibile aggiungervi delle sedie per un concerto, uno spettacolo, un comizio. I bambini devono poterci giocare. Eppure si ha spesso la sensazione che in questo momento storico prevalga l’idea dello spazio pubblico come luogo che al pari di tutti gli altri offre servizi a pagamento: ma la piazza di un centro commerciale non sarà mai l’equivalente di una ‘vera’ piazza che, certo, tra i suoi scopi annovera da sempre anche quello commerciale (basti pensare ai mercati) ma non si esaurisce in quello.
Spesso, oggi, anche negli spazi pubblici ci si sente reclusi e soli. Anche quando si è in tanti. E le iniziative volte e restituire convivialità ai luoghi che appartengono a tutti non sembrano mai abbastanza. Non è forse un caso se la regista francese Agnès Varda, 90 anni ha scelto di girare il suo ultimo documentario, “Visages, villages” in collaborazione con il giovane artista-attivista francese J.R, che ha esposto in tutto il mondo, open-air i suoi lavori – graffiti, foto, gigantografie, collages, murales che rappresentano volti di e storie di gente comune – in spazi pubblici, dalla Francia al Messico, da Israele e Territori al Brasile. In questo ultimo lavoro comune i due girano piccoli paesi della Francia con un furgoncino, incontrano persone e storie, e gli incontri vengono suggellati da ritratti subito stampati in gigantografie esposte in vari luoghi delle città: al posto dei cartelloni pubblicitari ecco i volti delle persone che in quei luoghi passano tutti i giorni e ci vivono. Riprendendosi così le risposte alla domanda essenziale: di chi sono gli spazi? Di chi li vive, ovvio.