Quando ero una bambina affidavo i miei segreti a certi diari con il lucchetto che si trovavano in cartoleria. Ancora si trovano, ma mi domando ormai chi li compri, forse i nonni nostalgici, per regalarli a ragazzine e ragazzini che non li useranno mai, tanto hanno tablet e cellulari. La piccola chiave la tenevo in un posto sicuro e ogni giorno andavo più volte a controllare che fosse ancora dove l’avevo lasciata: c’era, e anche i segreti erano allo stesso posto, tra le pagine del diario. Che segreti potessi mai avere, a otto o nove anni, non riesco a ricordarlo e quei diari chissà dove sono finiti. Così come i pizzini e rotolini di carta scarabocchiati in fretta e passati sotto il banco ai tempi di medie e superiori. Qualcosa è sopravvissuto: indicibili testimonianze di cotte stratosferiche, tradimenti amicali, oscenità gratuite, caricature trucide di presidi e professori. Cose segrete, insomma, cose che era meglio tenersi per sé o per pochi scelti.
Tutto il contrario di quel che succede quotidianamente nelle pagine dei social network dove continuiamo a postare commenti, giudizi, opinioni opinabili, foto di cibi, figli, vacanze, luoghi, oggetti, disseminando informazioni che dovrebbero restare celate. Quanta letteratura del passato verrebbe distrutta o completamente deformata se lasciassimo irrompere la nostra tecnologia quotidiana in certe trame complicatissime, in castelli di vicende erette su menzogne, loschi traffici, sul non visto e sul non detto. Adesso tutti i nostri segreti, e quelli delle persone che conosciamo, finiscono dentro una mattonella fatta di plastica, vetro, componenti microelettronici, rame, ferro, oro, argento, palladio e terre rare. Di lì passano e si depositano sms, e-mail, chat su Whatsapp e Telegram, fotografie, selfie spesso imbarazzanti. Sussulti del cuore, litigi, comunicazioni di lavoro e di servizio: il nostro mondo in chiaro e quello oscuro lì, a portata di pollice. Nonostante i codici d’accesso che teniamo monitorati, le protezioni che crediamo di saper metter in atto, quel nostro mondo è del tutto vulnerabile, anche se non ci piace pensarlo e cerchiamo appunto di pensarci il meno possibile.
Per tenere davvero al sicuro i nostri segreti dovremmo liberarci di ogni ammennicolo elettronico e comunicare affidandoci ai piccioni viaggiatori e alle informazioni scambiate vis a vis. Impensabile e impossibile: la comodità di questo sistema di connessioni infinite e istantanee ci aiuta a gestire lavoro, famiglia, tempo libero, burocrazia, salute, consumi. Nessun aspetto della nostra vita è più segreto da ormai molto tempo. Tutti i dati che forniamo in cambio di servizi, lo Spid, l’identità digitale che ci aiuta a gestire prestazioni sanitarie, iscrizioni scolastiche, servizi comunali e via dicendo, il GPS dell’auto, i tracciamenti degli Smartphone, il Green pass che certifica la nostra situazione vaccinale. È pervasivo e ineludibile, il controllo delle nostre azioni e anche dei nostri desideri. Basta vedere cosa si presenta nelle stringhe pubblicitarie dopo che abbiamo fatto una certa ricerca online: cerchi un orologio, eccoti accontentato, c’è chi sa benissimo tutto quello cui aneli, quello che vuoi. Inquietante? Molto.
Certo, si può restare pirati, ma a che prezzo? La maggior parte di noi ha troppi vincoli per poter decidere di darsi alla macchia. I nostri segreti allora, almeno quelli che non ci vengono richiesti per espletare la burocrazia del vivere, possono trovare un indirizzo numero zero che sta nascosto, muto, dentro di noi o forse, potremmo scegliere di sussurrarli nel buco di un tronco d’albero richiuso con il fango, come nel film di Wong Kar Wai, “In the mood for love”. Potremmo prendere sul serio quel consiglio e cominciare a nascondere qualcosa nei boschi e tra gli alberi se vogliamo proteggerlo e tenerlo al sicuro. Ma, ne saremmo ancora capaci?