Noi umani ci siamo sempre mossi. Enormi migrazioni, grandi viaggi e piccoli spostamenti quotidiani. “Venti chilometri al giorno, dieci all’andata, dieci al ritorno”, cantava Nicola Arigliano. I suoi erano per amore, molti sono per andare al lavoro. Ore di vita, tempo vuoto passato in coda, benzina bruciata da fermi, nervosismo per il timore di arrivare in ritardo a timbrare il cartellino. Fatica per andare al lavoro in aggiunta a quella del lavoro.

Poi, intorno ai primi di marzo di questo anno strano, per via del virus, milioni di italiani hanno cominciato a lavorare da casa: smart working, lavoro agile, telelavoro. È successo di colpo, è stata una migrazione al contrario, verso casa, di portata biblica. Di lavoro agile si parla da tempo, dal 2017 c’è una legge che lo spinge. Ma non hai mai fatto presa: resistenze, abitudini, inerzia. Prima del corona virus a fare smart working erano meno di 600mila persone, adesso siamo diventati 8 milioni.

Un passaggio epocale, non facile. Ci sono stati disagi, cadute di linea, incomprensioni e necessità di cambiare modi di comunicare. Ci sono stati figli – erano a casa anche loro – con un biscotto in mano trionfalmente strappato alla sorellina che entravano nella videoconferenza della mamma. La mamma si scusava, c’era qualche battuta dei colleghi e si ricominciava. Due minuti secchi e arrivava la sorellina strillando come un’aquila. Ci sono stati gatti che hanno passeggiato sulla tastiera del portatile digitando mail appena più incomprensibili di quelle del capufficio. C’è stato il Consiglio comunale di Trieste, anche lui spostato in videoconferenza, che ha fatto scuola. Con l’emozione del suo presidente per questa prima volta, in un momento così drammatico: 40 consiglieri collegati da remoto, più la giunta, i tecnici, i giornalisti. Poi alle sue parole si sovrappone una nitida imprecazione a sfondo religioso di una consigliera. Irritata per un qualche malfunzionamento del pc, si è dimenticata il microfono aperto. Momento di gelo, con il vicesindaco che si fa il segno della croce, ma gli scappa da ridere.

Poi la consigliera si scusa, a lungo e sinceramente, per l’inciampo blasfemo. Poi il presidente che dice: «Può succedere». Poi qualcun altro che non è d’accordo: va multata. Oppure la bestemmiatrice stessa  potrebbe autosanzionarsi e devolvere la cifra in beneficenza. Poi un altro consigliere che ha la soluzione: «La invito a portarsi, appena potrà uscire di casa, nel santuario della Madonna della salute e a inginocchiarsi davanti al quadro della Vergine e, battendosi il petto, chiedere perdono». Poi, nella stessa lunghissima seduta – c’è da approvare il bilancio – un consigliere viene chiamato a parlare quando non se l’aspetta ed fa il suo intervento a petto nudo. Un’altra si esibisce in esercizi ginnici per sgranchire le gambe, convinta d’avere la telecamera spenta ma invece è accesa. Alla fine, dopo 10 ore, il primo cittadino tira le conclusioni: «È stato il più bel Consiglio comunale della mia vita».

Noi cantiamo Com’è bello far telelavoro da Trieste in giù e lo prendiamo come un augurio: che lavorare un po’ anche da casa, risparmiando tempo e benzina, ci resti in eredità da questa incredibile primavera.

Tag: smart working, telelavoro

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