Torna a novembre il Baccanale di Imola, dedicato quest’anno a un tema insolito, perfino difficile a pensarlo in prospettiva gastronomica: l’amaro. Una vera sfida. Perché quel termine siamo soliti usarlo, in metafora, per sentimenti e situazioni poco liete: tristezza, sconforto, delusione… In effetti l’amaro che sentiamo in bocca può suscitare disgusto – e si tratta di un avvertimento: attenzione a quello che stai mangiando, il sapore sgradevole significa che qualcosa non va. La lingua avverte il cervello, che attiva il principio di precauzione. L’amaro è utile, serve a riconoscere un pericolo. Ma il fatto è che le varietà di amaro sono centinaia, tutte diverse. I recettori della lingua e del palato a poco a poco si allenano, imparano a distinguere l’amaro pericoloso da quello innocuo, l’amaro cattivo da quello buono. Per questo ci vuole tempo, ed esperienza, e giustamente si ripete che il gusto dell’amaro appartiene all’età matura. Ma conosco bambini che non disdegnano i radicchi. I radicchi, la scarola, il carciofo, il cardo, la cicoria… La storia del gusto sarebbe decisamente più povera senza l’amaro, e la quantità di prodotti caratterizzati da quel sapore è decisamente più ampia di quanto non penseremmo a prima vista.
Il gradimento dell’amaro è individuale, ma anche collettivo – nel senso che esistono, nelle diverse culture gastronomiche, vari gradi di apprezzamento per questo sapore. In una virtuale tabella di comparazione, credo che l’Italia sarebbe ai primi posti. Forse al primo. Molti osservatori l’hanno notato, dal Medioevo a oggi: agli italiani l’amaro piace molto. E poiché agli italiani piace molto anche il dolce (non casualmente, giacché i due sapori si valorizzano a vicenda), non sorprende che proprio in Italia si sia affermata una tradizione come quella dei liquori alle erbe, di gusto tipicamente dolce-amaro: ogni regione, ogni città ha la sua ricetta. Qui prevale il mirto, là il prugnolo selvatico, qui il sorbo, là il mallo di noce… e ancora l’amarena, la genziana, l’assenzio, il rabarbaro, la china, una quantità di varianti unite nel sapore amaro. Anche le preparazioni a base di agrumi, come il limoncello, hanno un tipico retrogusto amaro. E poi ci sono gli amaretti, col loro gusto di mandorle amare. E il caffè, che gli intenditori preferiscono amaro. E il cacao, che entra in alcune ricette come ingrediente naturalmente amaro.
Non è un gusto facile, certo, ma faremmo torto alla natura se lo pensassimo solo in termini negativi. “Dolce e amaro” non sono il buono e il cattivo. La storia della cucina insegna che tenerli insieme è la soluzione giusta. E il proverbio raccomanda: “Cose amare, tienile care”. Il senso è morale, vuol dire che le difficoltà aiutano a crescere. Ma a me piace leggerlo anche in senso gastronomico.