La prima volta che vidi il ghiacciaio Ciardoney, nel versante piemontese parco Nazionale del Gran Paradiso, era il settembre 1986. Di riscaldamento globale si iniziava a parlare solo in qualche rivista scientifica, società e informazione ignoravano completamente il tema. Eppure quello fu un anno cardine per i ghiacciai alpini, l’ultimo potremmo dire normale: da allora iniziò il grande ritiro. Alla fine di ogni estate alpina eseguo infatti con il mio team le misure di quello che si è trasformato in un laboratorio d’alta quota, a servizio della ricerca e dei bacini idroelettrici locali. Così, pure il 10 settembre 2018 siamo saliti a quota tremila, al termine della quarta estate più calda della storia: il povero ghiacciaio si mostrava nerastro, coperto da sabbie, pietre, detriti e inquinamento arrivato lassù dalla fumosa pianura, completamente privo dal suo manto protettivo di neve, sconvolto da innumerevoli rivoli d’acqua di fusione che verso la zona frontale diventavano impetuosi torrenti.
Ghiaccio che dalle montagne se ne va verso il mare, facendolo tra l’altro aumentare di livello. Le paline infisse nel ghiacciaio per misurarne la perdita di spessore comunicano il verdetto: circa un metro e mezzo perso in un anno, un dato che più o meno si ripete dall’inizio degli anni 1990, così che oggi si cammina circa 35 metri più in basso. Nella maestosità di questi ambienti, circondati da guglie di oltre 3.200 metri, sembra nulla, ma se pensiamo che lo spessore medio di questi ghiacciai è di 20-30 metri, ci rendiamo conto che sono destinati all’estinzione entro la metà di questo secolo, poi rimarranno solo pietraie. Vecchie fotografie e le nostre carte tecniche si incaricheranno di trasmettere al futuro il più evidente simbolo del riscaldamento globale: nell’ultimo secolo oltre la metà della superficie glaciale delle Alpi se n’è andata in mare. In genere, pochi giorni dopo la campagna di misure arriva la prima neve autunnale a congelare la perdita di ghiaccio fino all’estate successiva.
Quest’anno no. C’è stata una ripresa del caldo in settembre, che è diventato il sesto più caldo in duecento anni sulle Alpi italiane, con il risultato di portarsi via almeno un altro mezzo metro di ghiaccio: un bilancio negativo che tocca così i due metri fusi in una sola stagione (la caldissima estate del 2003 detiene il record, con tre metri). Se l’agonia dei ghiacciai è un sintomo climatico inequivocabile, non da meno lo sono stati i record di caldo nel resto d’Europa in questa estate 2018, la più calda in Scandinavia in oltre 200 anni di misure, con più di 30 gradi al circolo polare artico e incontrollabili incendi boschivi, nonché la seconda estate più calda in Francia, per non parlare della siccità in Germania. Dobbiamo star lì inerti a guardare questa sfilza di anomalie climatiche senza cogliere l’urgenza di agire contro l’inquinamento atmosferico che le alimenta? In queste pagine potete leggere dell’ennesimo rapporto del comitato intergovernativo sul clima delle Nazioni Unite (Ipcc) che ribadisce i rischi che corre l’umanità se non ferma il riscaldamento del pianeta a 1,5 gradi entro il 2100. Ma la cura verde va fatta subito, abbiamo già perso troppo tempo e i danni sono già in corso.