Ho un debole per i carciofi, quindi userò i carciofi per introdurre un tema di natura generale – quello della biodiversità gastronomica italiana, e di come sia stata storicamente condivisa – che si potrebbe affrontare in mille altri modi. L’Italia è la maggiore produttrice mondiale di carciofi, congeniali al nostro paese non solo per motivi climatici e ambientali, ma anche perché il gusto amarognolo è da secoli un tratto distintivo della nostra cucina. Presenti fin dal Medioevo sul territorio della penisola, oggi sono presenti in una grande varietà di cultivar, soprattutto nel centro-sud ma anche al nord: ne è esempio il carciofo violetto coltivato nella laguna veneziana (nella foto), particolarmente sull’isola di S.Erasmo, che dà nome al pregiato prodotto, oggi incluso fra i prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Veneto. Non voglio però discutere di questo carciofo, né di altri simili che si incontrano in diverse località italiane, all’insegna di una straordinaria biodiversità. Voglio discutere della sua denominazione (“carciofo violetto di S. Erasmo”) e di che cosa questa denominazione significhi.
Come tutti i gastro-toponimi – i nomi di luogo che designano specialità gastronomiche – anche questo presuppone un radicamento territoriale del prodotto. Da tempo, a S. Erasmo e dintorni si è consolidata la produzione di un carciofo (forse di ascendenza livornese) che ha trovato un habitat di elezione nell’ecosistema lagunare, oltre che nell’abilità degli orticultori locali. Specialità come questa oggi sono riconosciute da marchi di varia origine e di diverso significato (Dop, Doc, Igp, Stg, Pat, ecc.), ma la tendenza a legare i prodotti ai luoghi non è nuova: la ritroviamo già nei testi medievali e rinascimentali, in contesti puramente gastronomici, senza la preoccupazione, tipica del nostro tempo, di collegare il gastro-toponimo a esigenze di tutela legislativa e commerciale. Ma attenzione. Legate o meno a queste esigenze, le denominazioni di origine non indicano solo l’appartenenza territoriale di un prodotto ma anche il fatto che quel prodotto circola, viene acquistato e consumato altrove. Se il carciofo di S. Erasmo lo mangiassero solo a Venezia non si chiamerebbe così; sarebbe “carciofo” e basta. Denominare un prodotto in base al luogo di origine ha senso, ed è utile, solo quando esso abbandona quel luogo.
La frequenza dei gastro-toponimi, dunque, è direttamente proporzionale alla circolazione delle culture locali, attraverso il gioco dei mercati, delle conoscenze, delle persone che viaggiano. Il gastro-toponimo non è sintomo di localismo. Al contrario, significa movimento e confronto con gli altri. È importante notarlo: si tratta di una caratteristica originale, e originaria, della cultura italiana. Da secoli il nostro paese è ricco di prodotti (e di ricette) a denominazione di origine, testimoni del fatto che prodotti e ricette sono state condivise in una rete di rapporti commerciali, saperi, pratiche e gusti: così si è costruita l’identità dell’Italia, nel dialogo continuo fra “locale” e “nazionale”.