Noi uomini riteniamo di essere i soli viventi sensibili, ma soltanto perché non conosciamo la storia degli elefanti, la cui proboscide ha mille muscoli e un milione di nervi e vale almeno quanto le nostre mani, di cui siamo così orgogliosi. Mentre era costretto a piantare i pali della futura linea telegrafica in India, all’inizio del XX secolo, un elefante non voleva saperne di sistemare l’ultimo dentro il suo alloggiamento. Il conduttore non riusciva a capacitarsene e finalmente scese per guardare dentro il buco: c’era un cane che dormiva. Non appena il cane si allontanò, l’elefante piantò regolarmente il suo palo. Conosco molti uomini che non avrebbero avuto lo stesso scrupolo. Per non parlare del fatto che quei proboscidati festeggiano le nascite e piangono i morti esattamente come noi. Nelle arene dei romani erano gli ultimi a soccombere, perché si riunivano in gruppo e resistevano solidali. Di tutto questo immenso patrimonio di vita gli uomini hanno fatto scempio per secoli, riducendo gli elefanti sull’orlo dell’estinzione. Tutto questo per l’avorio delle loro zanne.
Oggi gli elefanti africani sono ridotti a 350.000 da oltre 25 milioni che erano nel XIX secolo e 5 nel XX: con questi ritmi non ci vorrà molto all’estinzione della specie. Cento elefanti massacrati ogni giorno, questa l’incredibile cifra di una delle più cruente estinzioni di massa perpetrate, senza nemmeno l’attenuante del bisogno, ma con l’aggravante dei futili motivi. La responsabile è certamente la povertà degli uomini di quel continente: chi è ridotto alla fame non risparmia gli altri uomini, figuriamoci un elefante. Ma quella povertà è anche colpa di chi, nel nostro occidente ricco, ha colpevolmente accumulato ricchezze alle spalle di un intero continente e non ha mai redistribuito né mezzi né denari. Una povertà che porta i bracconieri a uccidere anche altri uomini (un guardaparco ogni tre giorni in Tanzania), a scatenare guerre e a finanziare il terrorismo fondamentalista. Gli elefanti sono stati i padroni del pianeta fino all’arrivo dell’uomo e l’Europa stessa, responsabile di un terzo del commercio dell’avorio, era la loro terra.
Ma il problema è il valore commerciale dell’avorio: distruggerlo significa svuotarlo, renderlo pari a zero, e questa è l’unica via che abbiamo per stroncare il traffico illegale e il bracconaggio. “Ivory crush” (cioè distruzioni di avorio) si tengono per questa ragione in ogni parte del mondo e, finalmente, anche in Italia. E per queste ragioni non andrebbe, come si sta facendo nella riorganizzazione dei corpi di polizia, smembrato il CITES (Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione) e anzi, andrebbe accolta l’idea di creare una forza di interposizione con le eccellenze del Corpo Forestale dello Stato (oggi in via di accorpamento nei Carabinieri) da inviare nei paesi dove il bracconaggio è più grave per cooperare nella sorveglianza con tecnologie moderne e per formare nuovi guardiaparco. Una sorta di “caschi verdi” dell’ambiente internazionale come deterrente.