La denatalità e l’invecchiamento della popolazione italiana sono sempre più spesso una preoccupazione politica, sociale e culturale: vero che il sistema previdenziale potrebbe andare in crisi, vero che la sanità sarà sotto pressione, qualcuno si spinge pure in territori più opinabili, quali la perdita di identità culturale sostituita da nuove presenze migratorie. Ma ci si limita qui a guardare il problema esclusivamente dal punto di vista antropocentrico, senza fare i conti con i limiti e i vincoli fisici e ambientali del territorio che ci deve nutrire e sostenere. È come se si desse per scontato che un’ulteriore crescita della popolazione italiana, oltre i circa 60 milioni attuali, potesse essere sempre soddisfatta in termini di spazio, cibo, materie prime, energia, capacità di smaltire emissioni di gas serra e rifiuti. Volenti o nolenti queste sono le basi concrete del nostro benessere e non possono essere modificate.
Ogni territorio presenta una sua “capacità di carico” o “biocapacità”, cioè un numero massimo di individui umani o di altre specie viventi che possono vivere e prosperare con le risorse locali. Se si cresce oltre quel limite di solito il primo problema è che manca il cibo e si deve soccombere o emigrare, oppure intervengono meccanismi di controllo del sovraffollamento come epidemie o predazione da parte di antagonisti. L’uomo si è in parte emancipato da questi vincoli locali, attraverso i progressi della medicina e della tecnologia, inclusa l’importazione da luoghi lontani di quanto manca sul territorio locale. L’Italia vive già molto al di sopra della sua capacità di carico: per sostenere il nostro tenore di vita occorre circa quattro volte la quantità di risorse interne disponibili, che dunque importiamo dall’estero, il che è un fattore di fragilità e dipendenza.
Poiché dunque le leggi fisiche non possono essere cambiate mentre quelle umane sì, sarebbe importante più che aumentare la natalità cercare di gestire un transitorio di popolazione anziana per qualche decennio e poi stabilizzare la popolazione nazionale a livelli più bassi e più resilienti. Ovviamente è un programma complesso e sfidante, ecco perché serve che ci sia un lucido dibattito tra economisti e demografi insieme con climatologi, ecologi, agronomi, pedologi, urbanisti ed esperti del settore energetico, altrimenti si rischia di fare i conti senza l’oste, considerando che anche l’intero pianeta è ormai in “overshoot” e gli 8 miliardi di umani consumano più di quanto la biosfera riesca a rigenerare.
Un incoraggiante segnale a uscire dalla solita retorica demografica viene da Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e già sottosegretario di Stato al Ministero del Welfare: nel suo nuovo libro “Italia 2045. Una transizione demografica e razionale” (Guerini Ed.) ritiene che culle vuote, immigrati, lavoro e previdenza siano falsi allarmi, che ci distolgono dai rischi ben più gravi del cambiamento climatico e dell’esaurimento e degrado delle risorse naturali. Invece, assecondare una riduzione naturale della popolazione italiana prelude a un 2045 nel quale “saremo in meno ma più felici e meno stressati”. E, aggiungo, più autosufficienti.