“Le parole per dirlo” – dal libro della scrittrice algerino-francese Marie Cardinal – è il titolo che ho scelto per questa rubrica che inauguro ora. L’ho scelto per tanti motivi, il più ovvio, ma importantissimo per me che sono una scrittrice è che il mio lavoro è fatto di parole. Scrivo, racconto, indago, studio. Sono una donna, anche, una donna che scrive certo, una donna che pensa e che parla e una donna che ascolta molto le storie degli altri. Nessuno esiste da solo e il linguaggio è una raffinatissima forma di comunicazione. Certo ce ne sono altre: i gesti, la mimica facciale, le posture del corpo, ma niente è tanto organizzato quanto la comunicazione verbale. Niente, tra l’altro è così complicato e potenzialmente manipolatorio. Per scrivere occorre allenarsi: servono la conoscenza della grammatica e della sintassi, serve capacità di dare il giusto peso alle parole. Vale per uno scrittore, ma vale anche nella vita quotidiana di ciascuno. Chi fatica ad esprimersi e chi fatica a comprendere il linguaggio altrui, è come se scrivesse la propria vita con una matita spuntata. Con le parole poi, si può fare molto bene e anche molto male.
Mi ha molto colpita la scelta della parola che gli Oxford Dictionaries hanno scelto come più significativa del 2016: Post-Truth, ovvero Post-Verità. Ci segnala, questa scelta, che viviamo immersi in un contesto comunicativo globale nel quale la verità, o quello che dai media e social media viene indicato come verità può essere adulterato senza che neanche ce ne rendiamo conto. Accettiamo come oro colato ciò che proviene da fonti che non siamo in grado di verificare, spesso ci fidiamo degli slogan, ci lasciamo catturare dalle lusinghe oppure ci facciamo assorbire dalla rabbia. Siamo più attratti istintivamente da ciò che parla alla nostra pancia, alle nostre emozioni.
Dietro lo schermo dei nostri computer siamo tutti rivoluzionari, poi, nella vita quotidiana, quando si tratterebbe davvero di far valere i nostri diritti e alzare la voce spesso ci sentiamo smarriti, confusi e non ne siamo capaci. Cosa c’entra questo con le parole? C’entra, perché saperle usare e comprendere, quelle del Potere, ma anche le nostre, è fondamentale. Colpisce che un dato diffuso proprio a gennaio 2017 dall’Istat ci mostri come il 18,6% degli italiani nel 2016 non abbia letto neanche un libro o un giornale, abbia disertato cinema e teatri. L’80% di noi sono analfabeti funzionali: il succo è che leggiamo, guardiamo, ci informiamo, ma non capiamo o non del tutto. La connessione costante per via della quale ci riteniamo ‘informati’, può rivelarsi un grande abbaglio. Sappiamo tante cose è vero, ma come e quanto le abbiamo comprese, queste cose?
Il 5 gennaio è morto, a 84 anni, Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti italiani, non possedeva un cellulare, perché non voleva sprecare tempo e parole inutili. In una delle sue ultime interviste alla domanda, “si stanca a volte di leggere?” aveva dichiarato: “di leggere no, di leggere scemenze sì. Per i buoni libri ho ancora tempo.”
In questa rubrica ho intenzione di scrivere di molte cose: donne, diritti e doveri, scelte, consumi e risparmi, felicità e tristezze, rimozioni e coraggio. Vita, insomma. Ma vorrei anche, ogni volta, consigliare un libro, e il primo che scelgo tratta proprio delle “parole”; si intitola “Le parole che ci salvano”, Einaudi Editore, e l’ha scritto Eugenio Borgna, psichiatra. È un libro sulla responsabilità delle parole che pronunciamo e che scriviamo e che si addentra nel campo della ‘fragilità’ che contraddistingue l’umano.
Che il 2017 possa portare gentilezza alle parole che usiamo ogni giorno.
La post-verità e il peso delle parole
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