Qualcuno sostiene che non si può definire “italiano” l’insieme composito di particolarità locali che caratterizzano la cucina (le cucine) del nostro paese. Io sono convinto del contrario: che una cucina e un gusto italiano esistono, e che proprio quelle particolarità ne costituiscono l’ossatura. Nel nome di una straordinaria e irriducibile biodiversità culturale.
Questa biodiversità non è autoreferenziale, ma ha costituito nei secoli – ben prima che l’Italia diventasse anche un’unità politica – una rete di saperi e di pratiche che si conoscono, si confrontano, si integrano. Mi piace ricordare ciò che scriveva Alfredo Panzini nel suo “Dizionario moderno”, del 1905, alla voce “Risotto”: «Sì mangiando risotto a Milano, come spaghetti a Napoli, o fettuccine a Roma, io mi sento italiano, e godo dell’italianità sì del Barolo a Torino come del Sassella valtellinese: e mi parrebbe peccato guastare questa stupenda varietà gastronomica, né per questo mi sento meno unitario».
La cucina e il gusto italiano non sono la semplice somma, ma la moltiplicazione delle diversità locali, condivise in un comune sentimento della cucina. Così mi piace chiamarlo, “sentimento”, perché attraverso la cucina gli italiani esprimono, da secoli, l’identità collettiva. Al di là dei singoli prodotti o delle singole ricette, è la relazione col cibo (intensa, profonda, piena di significati sociali ed emotivi oltre che di straordinarie tecniche e saperi) a caratterizzare gli italiani, tutti. Non c’è altro popolo che al pari degli italiani sappia rappresentare sé stesso, la propria vita, la propria storia parlando di cibo.
Sono queste le idee portanti attorno a cui ho curato una mostra, “Gusto! Gli italiani a tavola 1970-2050”, allestita al Museo M9 di Venezia-Mestre. Il direttore del museo, Luca Molinari, ha programmato tre mostre sui principali “luoghi comuni” attorno ai quali si racconta l’identità del Paese. Il primo non poteva che essere il cibo (seguiranno lo sport e la canzone). L’arco cronologico della mostra allude al presente e al futuro, evidenziando i cambiamenti intervenuti di recente nella cultura del cibo e le possibili direzioni di marcia. Ma non manca uno sguardo al passato, perché la storia del gusto italiano è fatta anche di valori che si trasmettono nei secoli – il gusto della biodiversità condivisa ne è l’elemento essenziale e più duraturo. È un gusto aperto e inclusivo, rispettoso delle differenze, fortemente legato alle risorse dei singoli territori. La cucina italiana non è necessariamente “migliore” di altre (anche se la sua varietà e ricchezza sono incomparabili), ma rappresenta un modello esemplare di integrazione fra uomo e ambiente. Uomini, anzi, al plurale, giacché tutte le fasi del percorso che trasforma le risorse in piatto sono attraversate collettivamente, arricchendo il cibo di valori sociali e affettivi non meno energetici di quelli nutrizionali.