Il 23 aprile si celebra la Giornata Mondiale del Libro e tra i tanti argomenti da discutere c’è il gap di genere che esiste anche in campo culturale ed editoriale. Sulle pagine culturali ci sono meno autrici recensite e meno firme femminili, e se è vero che in editoria sono tantissime le “impiegate” (traduttrici, redattrici, uffici stampa, editor), pochissime sono le donne in posizioni dirigenziali. E il numero di scrittori maschi pubblicati è sempre più alto di quello delle donne, con un rapporto di 10 a 4. Certo, ci sono iniziative declinate al femminile (danno un po’ l’idea della riserva indiana, nonostante le buone intenzioni), ci sono le quote rosa, ma se si vanno a vedere i nomi nelle liste dei festival letterari è lampante che la stragrande maggioranza degli autori invitati sono maschi.
In questi ultimi anni molto si è mosso, sono tantissime, e di altissimo livello, le autrici italiane che hanno avuto successo, vinto premi letterari importanti e raggiunto vette di vendite, ma ancora non si è fatto il grande salto, quello dell’autorevolezza: ti promuovo e parlo di te non in quanto scrittrice, femmina – e con quella fastidiosa, malsana idea che le donne scrivano fondamentalmente per le altre donne – ma perché sei brava, perché la letteratura non ha sesso e ogni autrice e ogni autore ambiscono a scrivere per il genere umano tout court. Se penso agli anni della mia formazione, fatta salva Elsa Morante, e forse qualcosa di Grazia Deledda (unico Nobel italiano femmina) e Natalia Ginzburg, tutto quello che ho scoperto sulle autrici italiane del Novecento è stato frutto di ricerca personale. Le scrittrici stavano forse dentro un canone letterario separato oppure un canone non ce l’avevano affatto. Secondo i compilatori di antologie letterarie, evidentemente scrivevano al nulla e a nessuno; nomi come Alba De Cespedes (nella foto), Annie Vivanti, Sibilla Aleramo, Fausta Cialente, Laudomia Bonanni, Anna Banti, Gianna Manzini.
Certamente il criterio fascista di non occuparsi della narrativa femminile, anzi di escluderla proprio in via preventiva, ha avuto un’influenza lunga e persistente, a volte inconscia, forse, ma certamente dannosa per generazioni di studiose e studiosi di letteratura e anche per lettrici e lettori, per la percezione che la società ha avuto riguardo il ruolo di intellettuali e scrittrici, tanto più che la gran parte di queste donne sono state fondatrici e curatrici di riviste letterarie e grandi animatrici di vita culturale. Arriverà il giorno in cui i manuali di letteratura per le scuole di ogni genere a grado saranno completamente rivisti in questo senso, con l’inclusione di tutte coloro che sono state sforbiciate via per scarsa lungimiranza, e finalmente comprenderemo l’importanza che hanno avuto, anche nel nostro paese, nella storia della nostra letteratura e dunque del pensiero e della società, le voci femminili.
Virginia Woolf, nel saggio “Una stanza tutta per sé” scrive “for most of history anonymous was a woman”. Quando troviamo una poesia, un aforisma o una citazione anonima, prendiamo in considerazione il fatto che, molto probabilmente, tra quegli anonimi si celano molte donne. Adesso, il diritto di passare alla storia con i loro nomi e cognomi le donne ce l’hanno, ma dal momento che a veder perdere peso un diritto ci vuole un attimo (la pandemia in questo ci ha dimostrato e ci sta dimostrando come la disparità di genere sia ancora grande e come tanti, troppi, dei compiti di cura ricadano sulle donne, nelle famiglie, a dispetto del lavoro fuori casa) teniamocelo caro e manteniamolo al suo peso forma.