«Qui le persone sono così felici/ che nemmeno amano/ sono realizzate non hanno bisogno/ l’uno dell’altro nemmeno di dio/ la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce/ e fino a sera aspettano la morte…»
Agota Kristof (nella foto) dalla raccolta di poesie “Chiodi”, Casagrande Edizioni
La felicità sta nelle piccole cose, sta nelle cose medie, in quelle grandi, in quelle grandissime, oppure nelle astrazioni? La felicità è cosa strettamente individuale oppure esiste un’aspirazione alla felicità collettiva? La felicità è nel primo caffè (con sigaretta, per i viziosi e non salutisticamente corretti) della mattina, in una giornata di sole, un sorriso, l’incontro con una persona che ci sta simpatica, l’amore, il sesso, una vincita al superenalotto, una promozione sul lavoro (un lavoro! Anche a tempo!) oppure la felicità è la pace nel mondo, il realizzarsi di un sogno o bisogno che è sociale, dunque, se non di tutti, almeno di molti? La felicità, oggi, qui, mi pare che spesso coincida con queste tre condizioni: essere belli, ricchi e famosi (per cosa, poco importa). Nell’era dei selfie e del narcisismo collettivo più che altro, conta che gli altri ci vedano così, ci guardino e pensino: è bello (o bella) ricco e famoso, e in quello sguardo esterno che ci ammira e ci invidia troviamo ciò che ci sfugge in noi stessi e di noi stessi, come se appunto, l’importante, non fosse tanto l’esserlo, felici, ma il sembrarlo.
Eppure la vita, per essere interessante e degna, non deve per forza essere felice. Quantomeno, non continuamente: uno stato di felicità permanente è altamente improbabile, e forse nemmeno auspicabile. Il dolore, l’infelicità, l’insoddisfazione sono sgradevoli, talvolta insopportabili, certo, ma sono anche, spesso, le molle che ci catapultano volenti o nolenti in territori sconosciuti e ci costringono a darci da fare per imparare cose che non sappiamo e inventarci alternative. La felicità accade, come un arcobaleno dopo un temporale e così come rapidamente dal nulla accade, così sparisce, ci lascia e ne resta soltanto il ricordo. Ce ne sarà un’altra? Può darsi, ma importa? Quando penso ai bambini, ai ragazzi e vedo come si cerchi di tenerli al riparo da tutte le minime frustrazioni, le piccole infelicità, le sconfitte, penso che forse non tutti i torti avevano le generazioni dei nonni e dei bisnonni che i figli li educavano anche al sacrificio, alla rinuncia, nell’idea che la vita, più che felice dovrebbe essere dignitosa e sensata, trascorsa avendo in mente uno scopo e perseguendolo con quella meschina, immensa qualità che è l’ostinazione.
«Nell’antichità la felicità era una ricompensa per pochi eletti selezionati. In un momento successivo venne concepita come un diritto universale che spettava a ogni membro della specie umana. Successivamente, si trasformò in un dovere: sentirsi infelici provoca senso di colpa. Dunque chi è infelice è costretto, suo malgrado, a trovare una giustificazione alla propria condizione esistenziale». Zigmunt Baumann
C’è una bellissima Bustina di Minerva di Umberto Eco del 2014 sul tema, e la trovate qui:/espresso.repubblica.it/opinioni/