Come cambia il nostro rapporto col cibo nei mesi di domiciliazione forzata? Soprattutto in una direzione, mi sembra: lo rispettiamo di più.

Che il cibo sia essenziale per vivere, l’unica cosa di cui non possiamo fare a meno, è ovvio e tutti lo sappiamo. Ma solo nei momenti difficili questa verità assume un’evidenza assoluta, una carica emotiva che ci fa avvicinare al cibo in modo diverso. Fare la spesa (o, per chi può permetterselo, raccogliere qualcosa nell’orto), cucinare, mangiare diventano improvvisamente le azioni centrali del vivere quotidiano. Altre cose rimangono essenziali, ma neppure l’antico adagio “basta la salute” funziona più. La salute è al centro di ogni attenzione, ma il cibo viene ancora prima perché senza cibo non c’è vita, letteralmente. In questa prospettiva perfino le pietose scene di accaparramento a cui ci è capitato di assistere assumono un senso, anche se patologico. E non parliamo di quanti faticano ad arrivarci, al cibo, o dipendono dalla generosità altrui. Ma soprattutto penso alla normalità quotidiana dei più. Quelli che, più semplicemente, in questi giorni guardano al cibo in modo diverso perché lo sentono più vicino, amico, vitale. Il rapporto si fa più stretto, la relazione si stringe. Non c’è più indifferenza o distanza, si calcola con maggior attenzione quanto ne serve, per quanti giorni. Come utilizzarlo al meglio, sprecando il meno possibile. Valori che circolano da anni nei nostri pensieri e nei nostri discorsi – azzerare gli sprechi, recuperare gli avanzi dandogli nuova vita – assumono una corposità che non avevano. Forme di rispetto, le chiamavo.

Rispetto è anche dare la parola al cibo, farlo parlare, porsi davanti a lui in modalità interattiva. Mangiare è sempre un gesto di relazione, è l’incontro fra un soggetto mangiante e un soggetto mangiabile. Ma troppo spesso il primo soggetto appare indifferente alla personalità del secondo. Il soggetto mangiabile (la carota, il formaggio, la coscia di pollo, il maccherone) è disponibile a tante avventure a seconda del contesto in cui lo metti, del modo in cui lo usi e lo accompagni.

Tutto ciò lo chiamiamo “cucina” e siamo tentati di pensarlo come frutto esclusivo della volontà del mangiante: sono io a decidere come, quanto, dove. Ma è anche il soggetto mangiabile a indicare la strada, a esigere trattamenti, a reclamare compagnie non casuali: perché l’arrosto chiama il rosmarino, perché i tortelli al burro chiamano la salvia? Abitudine culturale, certo; ma anche innata propensione. Ecco, io credo che ascoltare le ragioni del soggetto mangiabile dia senso e completezza alla dimensione relazionale del gesto, frutto di una collaborazione fra mangiante e mangiato. Anche questo mi piace chiamarlo rispetto. Se dall’incubo che stiamo vivendo usciremo con un tasso maggiore di rispetto per il cibo, l’esperienza non sarà stata inutile.

Tag: cibo, mangiare

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