Gli alimenti “light” hanno fatto capolino nel mercato italiano negli anni ’80 sull’onda del successo delle prime diete commerciali, diventate marchi in voga. Tali marchi sono stati importati soprattutto dagli Stati Uniti, tant’è che il termine “light” è stato usato più della sua traduzione “leggero”.
Dopo un periodo anarchico in cui ogni produttore faceva a modo suo, la Comunità Europea ha deciso di dare una regola chiara per poter scrivere su una confezione che un prodotto è “light”, ovvero la riduzione del 30% delle calorie. Questa direzione fu la conseguenza di una serie di studi sul ruolo del consumo di alimenti a elevata densità energetica nella regolazione del comportamento alimentare, culminati con il documento del 2003 dell’Organizzazione mondiale della sanità che identifica una relazione certa tra il consumo di alimenti ad elevata densità energetica e l’obesità. Negli anni ’80 e ’90 tra gli alimenti light vi furono prodotti (tutt’oggi presenti sul mercato) che hanno concretamente migliorato il loro profilo nutrizionale, ed altre distorsioni in cui l’uso fu fuori luogo: qualora un alimento abbia una densità energetica molto alta, non basta una riduzione del 30% per renderlo “light” o “leggero”. A questo si sono aggiunti casi, come quello del 2015 relativo alle patatine fritte confezionate, in cui l’antitrust ha inflitto multe per pubblicità ingannevole anche per aver usato il descrittore “light” in modo scorretto. Nonostante questi casi, credo che complessivamente il fenomeno dei prodotti “light” abbia fornito più stimoli positivi che negativi all’evoluzione della ricettazione di molti prodotti che troviamo sugli scaffali, anche se le persone raramente hanno avuto un aiuto concreto nel controllo del peso come ci si sarebbe aspettato.
Anche per questi motivi nell’ultimo decennio al concetto di densità energetica si è affiancato il concetto, introdotto tra i primi da Adam Drenowsky, di densità nutrizionale: se consumo una merenda light che non mi sfama rischio poi di piluccare altri snack oppure di arrivare a cena affamato; al contrario se uso uno snack ricco di nutrienti sarà più probabile che mi sazi e che riesca a controllare meglio il comportamento alimentare. Esistono nutrienti come zuccheri e grassi aggiunti che non aiutano, e altri come i carboidrati a basso indice glicemico, fibre e proteine che possono aiutare; per questo motivo molti ricercatori ed enti governativi stanno studiando algoritmi come il “nutrient rich foods index” o il “nutri score” (di cui abbiamo parlato a maggio 2017). Diverse aziende oggi ricettano prodotti che non hanno più “light” come caratterizzante principale, ma l’aumento di fibre, la presenza di legumi o cereali integrali, piuttosto che la riduzione degli zuccheri aggiunti o dei grassi saturi. Un indice che orienti il consumatore in merito alla densità nutrizionale potrà aiutare a fare scelte più bilanciate, senza limitarsi alla semplice restrittività calorica o alla riduzione o presenza di un singolo nutriente; tuttavia giungere ad un accordo è molto complesso ed il dibattito scientifico è ad oggi aperto ed effervescente.