Una commedia di Arnold Wesker (The kitchen) rappresenta la vita frenetica che si svolge nella cucina di un grande ristorante londinese, in cui le vicende personali di cuochi e camerieri si incrociano con gli ordini che arrivano, la carne da tagliare, i dolci da rifinire. Nella concitazione generale a un certo punto una cameriera grida “Spaghetti alla bolognese!” e un suo collega commenta: “È buona la cucina italiana”.
L’opera di Wesker (che ho rivisto qualche sera fa al rinnovato Teatro comunale di Imola) ha più di 50 anni e riflette un luogo comune consolidato, che individua gli “spaghetti alla bolognese” come tipico piatto “italiano”, uno dei più conosciuti e richiesti in tutto il mondo. Lo si ritrova anche in aree “marginali” dell’Italia, come le zone alpine di lingua tedesca o ladina, dove ogni rifugio che si rispetti non manca di proporlo a escursionisti e sciatori. Gli spaghetti con le polpette di carne ne sono una simpatica variante americana, immortalata anche da Walt Disney nella scena conclusiva di Lilly e il vagabondo.
Eppure, nella tradizione bolognese questo piatto non esiste. Esso è nato, come in un esperimento di laboratorio, dalla contaminazione fra due prodotti emblematici della tradizione gastronomica italiana, gli spaghetti di pasta secca (siciliani nel Medioevo, napoletani in età moderna) e il ragù di carne con cui a Bologna si condiscono le tagliatelle di pasta fresca all’uovo.
I puristi della cucina bolognese si innervosiscono, chiudono gli occhi, non esitano ad affermare che gli spaghetti alla bolognese “non esistono”, che sono “pura invenzione”. Ma dobbiamo distinguere: sono un’invenzione, certo. Come tutto. Esiste forse qualcosa, nelle pratiche di cucina, che non sia stato inventato da qualcuno prima di diventare patrimonio collettivo? Ciò che chiamiamo tradizione non è altro che una invenzione ben riuscita. Anche gli spaghetti alla bolognese lo sono: piacciono a molti, ed è questa la condizione che garantisce il successo e la durevolezza di una ricetta. Se i bolognesi la ripudiano, non per questo possiamo dire che “non esiste”. Essa esiste e come. Semmai è l’attribuzione a Bologna a essere fuorviante, anzi falsa, ma di falsi è piena la nomenclatura gastronomica e sarebbe impensabile cancellarli o correggerli tutti. Ai bolognesi consiglierei piuttosto di entrare in gioco, recuperando essi stessi, con leggerezza e ironia, la stramba immagine che il nome di quella ricetta ha proiettato sulla loro cucina. In fondo, qualcosa del genere è già accaduto: in Francia, nel Medioevo, si inventò per Bologna l’attributo di “grassa”, e i bolognesi non tardarono a farlo proprio.
Per questo mi ha molto divertito la provocatoria iniziativa di un ristoratore di Bologna che ha avuto il coraggio di inserire nel suo menù gli “spaghetti alla bolognese” (anzi all’inglese: spagetti bolognese, senza “h”). Vi assicuro che sono squisiti.
Massimo Montanari